La leggerezza di frate Giuseppe Incanto tra parole e musica
Pugliese con Ura Teatro in scena per deSidera festival
Uno spettacolo per prendere il volo e distaccarsi dalle arroganze terrene. Fabrizio Pugliese, con la compagnia Ura Teatro, stasera alle 21.15 (ingresso libero) mette in scena Per obbedienza. Dell’incanto di frate Giuseppe, al parco di San Rocco a Spirano per deSidera festival.
La scena è scarna: attore, sgabellino, corpo e parole per «dare vita a San Giuseppe da Copertino, la cui storia mi ha incantato», racconta l’attore, anche autore del testo con a Francesco Niccolini, e regista con Fabrizio Saccomanno. Tutto parte dallo scritto «A boccaperta» di Carmelo Bene dedicato alla vita di quest’uomo, considerato un demente,
ma la cui forza stava nella leggerezza totale, «era tanto leggero da volare — continua Pugliese —. Giuseppe sfuggiva da tutte le parti. Non era né un teologo né un mistico, ma uno da inserire tra la schiera dei semplici e degli idioti, nell’accezione più nobile. E in questo si può leggere anche la metafora del Sud azzoppato, che vola o resta lì». Nell’affrontare la drammaturgia il nodo da sciogliere era come rappresentare il frate, che neanche Bene riuscì a interpretare. La risposta arrivò nella leggerezza delle parole.
Lo spettacolo, il cui titolo riprende il «Giuseppe, per obbedienza, unica parola in grado di farlo scendere — spiega l’attore —, è narrazione affidata alla musicalità di un linguaggio popolare, che a volte sporco con intromissioni di dialetto calabrese, mia terra d’origine, benché da 23 anni viva a Lecce, e piccoli gesti, eco della mia esperienza nel teatro danza. Dicono che a volte volo, forse perché mi perdo nel racconto come Giuseppe spiccava il volo». Pugliese nel parlare riproduce l’incantamento provato dal santo nel guardare la Madonna. Osservarla gli provocava estasi, tanto da elevarsi. «Quest’incanto mi ha appassionato per tutte le possibili metafore che si aprono con il personaggio, i cui misteri restano aperti — prosegue l’artista —. Perché il compito del teatro non è dare risposte, ma porre domande». E conclude: «La storia recupera la cronologia di Giuseppe in rapporto con le sue visioni e il suo tempo, il Seicento, quando venne inquisito. Un tempo dove il potere è arrogante e l’idiozia e lo staccarsi da terra sono l’unica salvezza».