Le «Terre scritte» di Giacomelli nell’incanto di Astino
In mostra ad Astino da venerdì al 31 luglio oltre 40 scatti di uno dei maestri indiscussi della fotografia italiana del Novecento «La ricerca di forme e di segni fissati dentro il fluire del mondo»
Aun anno dalla mostra dedicata a Luigi Ghirri, Corrado Benigni e Mauro Zanchi propongono ad Astino, per conto della MIA, una nuova eccellente occasione per riflettere sul rapporto tra fotografia e paesaggio italiano. Si tratta di «Terre scritte», una personale dedicata a 40 scatti (molti inediti) provenienti dall’Archivio Mario Giacomelli. Non solo. Verranno esposte anche le fotografie del ciclo «Motivo suggerito dal taglio dell’albero».
L’accostamento è particolarmente significativo perché, in termini strettamente visuali, accomuna due modi di vedere tipici di Giacomelli. Lo sguardo dall’alto, quasi dal punto di vista di un uccello in volo, capace di coprire larghe distese di terra (in particolare gli amatissimi colli marchigiani); e lo scatto da vicino, quasi al microscopio, dentro i dettagli della natura. Modi di vedere opposti, ma complementari, perché c’è un evidente denominatore comune dietro questi scatti, una medesima intenzione visiva: la ricerca di forme e di segni, talvolta antropomorfi, fissati dalle istantanee dentro il fluire del mondo. Segni che solo la fotografia è in grado di documentare in modo così espressivo e consapevole.
Mario Giacomelli ha ovviamente una sua storia artistica personale, ma fa parte anche lui di un momento collettivo irripetibile della fotografia italiana. Parte negli anni cinquanta, trentenne, con un passato da tipografo, adottando uno stile sostanzialmente da reportage. È una tendenza che lo porterà ad abbracciare un suo personale stile di realismo, reso famoso dalla serie sul paese di Scanno, in Abruzzo. Un neorealista come Elio Vittorini è uno dei suoi estimatori: ma già da allora Giacomelli comincia a sperimentare in altre direzioni.
Giacomelli non fa parte del celebre progetto «Viaggio in Italia» del 1984, il libro che è una sorta di pietra miliare per la fotografia italiana contemporanea. È quello il momento in cui molti (e certamente quasi tutti i migliori) fotografi nazionali acquistano una nuova consapevolezza rispetto alla loro missione. È come se, cadute le illusioni ideologiche e quelle dell’arte al servizio di qualche nobile causa, tutti insieme aprissero gli occhi su quello che Gianni Celati, lo scrittore loro compagno d’avventure, definisce con parole lapidariamente programmatiche «guardare il mondo così com’è». Tra le molte conseguenze di questo cambiamento c’è un abbandono dei soggetti umani e un aumento dell’attenzione al paesaggio. Dove, con questo termine, si intenda la particolare interazione degli italiani con quello che gli sta intorno: il singolare prodotto del boom degli anni sessanta, vale a dire la coesistenza di bellezze classiche con il surreale «sviluppo» dell’Italia del benessere. Mentre le facce degli italiani si fanno sempre meno interessanti (la «mutazione antropologica» descritta da Pasolini ha i suoi effetti), il mondo che li circonda comincia a raccontare storie sempre più affascinanti. C’è chi, per far questo, si concentra sull’architettura, chi sulla relazione di questa con la natura, chi — come Giacomelli — sviluppa intuizioni precedenti legate alla descrizione del lavoro nei campi.
Già negli anni Sessanta Giacomelli aveva cominciato a fotografare i terreni coltivati come cose astratte, chiedendo talvolta ai contadini di arare i loro appezzamenti secondo un certo disegno. A partire dalla fine degli anni settanta, questa inclinazione prende una forma programmatica: scompaiono i contadini, restano i campi — fotografati in un bianco e nero pittorico, ma mai consolatorio. Negli scatti di Giacomelli resta sempre qualcosa di terragno, di materiale, che impedisce i voli pindarici dell’accademia. Gli interessa ritrarre la natura come una storia prodotta dal lavoro dell’uomo, non come un arcadico paesaggio classico. Terre scritte, appunto. Anche la serie del taglio dell’albero non sarebbe pensabile senza l’intervento dell’uomo: la ricerca del fotografo marchigiano (capello bianco lungo e incolto, sigaro in bocca) sta sempre dentro la fatica del lavoro; e quella terra rivoltata, o il bosco tagliato, testimoniano sempre la presenza di un «fuori campo» umano. Non si tratta di contemplare la bellezza, ma di guardare con attenta partecipazione. Che è quello che succede con gli scatti dei veri grandi fotografi: il loro sguardo ne chiama sempre un altro, quello dello spettatore. La rappresentazione dell’uno chiama l’immaginazione dell’altro. Il mondo «così com’è» non è un codice immobile, ma l’evoluzione infinita delle cose. Paradossale che per cogliere questo infinito mutare, lo scatto di un’istantanea sia uno degli strumenti più rivelatori.