Corriere della Sera (Bergamo)

«Tornassi indietro rifarei il ciclista» I 75 anni di Gimondi

- Tiraboschi

Non avessi fatto il ciclista forse avrei lavorato nella ditta di trasporti di mio padre. Mi sarebbe piaciuto avere anche un’azienda agricola, coltivare la terra Ho avuto Pantani alla Mercatone Uno, era già affermato e faceva di testa sua. La sua morte mi ha rattristat­o ma preferisco ricordarlo per le grandi vittorie

Parliamo un po’ di ciclismo? Tiralongo è appena sceso dalla bici... «Quanti anni ha?». Una quarantina. «Beh, più o meno gli anni che avevo quando mi sono ritirato».

In realtà gli anni erano solo 36, ma il pretesto è servito. Perché, se gli avessimo detto che il vero motivo dell’intervista erano le 75 candeline che spegnerà tra due giorni, conoscendo­lo, chissà se Gimondi sarebbe stato così felice. Ma al calendario non si sfugge, soprattutt­o se è quello del ‘42, anno che ha dato i natali ad un inarrivabi­le terzetto di campioni made in Bergamo. Tris d’assi: calcio, motociclis­mo e ciclismo: Facchetti, Agostini e Gimondi. «C’eravamo trovati al sessantesi­mo. Ora Giacinto non c’è più e avrebbe meritato di più di quello che la vita gli ha riservato. Ci hanno accomunato tante cose, la determinaz­ione, le storie famigliari. La voglia di affermarci, ona olta al ghera gna quase de

mangià (un tempo, quasi ci mancava il companatic­o, ndr).

Felice, ciclisti si nasce o si diventa?

«Tornassi indietro rifarei il ciclista. È una passione che hai dentro fin da piccolo, fin da quando ti comprano la prima bicicletta». A che età? «Avrò avuto 10 anni, quinta elementare e in famiglia convinsero mio papà a regalarmen­e una. Un’Ardita rossa. Finalmente».

Se non ci fosse stato quel regalo?

«Mio papà aveva un’impresa di trasporti, mia mamma faceva la postina. Forse avrei aiutato mio papà. Però, a pensarci bene, mi sarebbe piaciuto fare l’architetto, ma a quei tempi bisognava volare basso».

Una passione per l’edilizia?

«Anche, ma più in generale, quella di creare qualcosa di nuovo, di diverso. Ad esempio, mi sarebbe piaciuto avere anche un’azienda agricola, coltivare la terra. Anche qui a Bergamo e colline dei dintorni, ma il ciclismo non me ne ha dato il tempo».

Se dovesse mettere sul podio i tre momenti più belli della carriera?

«Al primo posto l’esuberanza con cui ho vinto il Tour de France, e poi la tattica che ho usato quando ho vinto l’ultimo Giro che avevo 34 anni (era il 1976, ndr) e infine la scelta tecnica decisa al Campionato del Mondo (vinto nel 1973), un capolavoro. Avevo due belgi da battere: Merckx e il giovane Maertens che volevano farmi fuori. In volata mi sono giocato l’occasione della vita e mi sono fatto trovare pronto». Nessun rimpianto? «Più che un rimpianto, un rincrescim­ento e un mezzo spavento. Quello di essere partito per il Giro d’Italia del ’69 con le preoccupaz­ioni di un cardiologo che mi consigliav­a di fermarmi per qualche tempo. “Hai il cuore ingrossato”, mi disse. Per fortuna venne a visitarmi il professor Quarenghi e di lì a qualche tempo trovai una condizione strepitosa. Al Tour volavo, peccato che non l’ho vinto. Ad un traguardo avevo bevuto acqua troppo fredda e, tra mal di stomaco e febbre, addio sogni di gloria. Lì ho perso il Tour. La doppietta rosa e gialla nello stesso anno è il sogno di ogni ciclista».

Cosa che, invece, è riuscita a Pantani. Lei era presidente della Mercatone Uno all’epoca, ma il vostro non fu un gran rapporto.

«Era già affermato e faceva di testa sua. Non mi ha seguito più di tanto. Ma questa è la storia della vita, ci sono feeling che si realizzano subito ed altri che non si realizzano mai. La sua morte mi ha rattristat­o, ma io voglio ricordarlo solo nelle cose belle, come la vittoria al Santuario di Oropa. Un momento esaltante».

Sono passati pochi anni ma sembrano un secolo.

«Perché è cambiato il sistema di correre. È quasi tutto computeriz­zato. Allora, ma soprattutt­o ai miei tempi, si dava più spazio all’istinto. Si andava in fuga, almeno si provava, anche se poi si veniva ripresi».

Che consigli daresti ad un ragazzo che vuol fare della bici la sua vita?

«La prima cosa: lasciare a casa i genitori, vogliono pilotarli ma quando si pedala tra i giovanissi­mi bisogna lasciar correre solo l’istinto. I ragazzi devono divertirsi e i genitori non devono fare i commissari tecnici. il ragazzo sbaglia? Meglio, così impara. E poi consiglier­ei di crescere nelle squadre piccole, dove ognuno fa la sua corsa. I tatticismi devono arrivare dopo i 20 anni, prima non servono e sono dannosi. Nella mia squadra ideale sono tutti liberi: chi vince, vince».

A quando un baby Gimondi?

«Ho un nipotino, il figlio di Federica, che ha 8 anni. A go cumpràt mia ona ma do bici,

ma lù negot (Gli ho comprato non una ma due biciclette, ma niente da fare ndr)».

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 ??  ?? Felice Gimondi compirà 75 anni venerdì. Qui posa con il «Trofeo senza fine» del Giro d’Italia, competizio­ne che conquistò per cinque volte. Il ciclista originario di Sedrina è stato inserito nella Hall of Fame della Corsa Rosa
Felice Gimondi compirà 75 anni venerdì. Qui posa con il «Trofeo senza fine» del Giro d’Italia, competizio­ne che conquistò per cinque volte. Il ciclista originario di Sedrina è stato inserito nella Hall of Fame della Corsa Rosa

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