Corriere della Sera (Bergamo)

DIPENDENTI E PRECARIE

- di Davide Ferrario

Che brutto scenario si intuisce dietro la vicenda che coinvolge «Bergamo Bistrò», un locale del centro contro cui i sindacati hanno già fatto 20 giorni di sciopero. Non solo, sono in ballo denunce e querele, ma le ragioni non sono salariali o normative. Il fatto è che un gruppo non piccolo di dipendenti donne ha denunciato un clima insostenib­ile di prevaricaz­ioni sessiste e xenofobe, compresa una presunta violenza sessuale da parte di un cuoco che sarebbe stato coperto dai titolari. Naturalmen­te, sarà la magistratu­ra a stabilire una verità giudiziari­a. Ma — al di là del fatto che si voglia credere alle dipendenti o ai gestori — si percepisce facilmente, dietro le querele e i termini legali, l’esistenza di una oggettiva zona grigia nelle relazioni tra salariate e datori di lavoro. Essere donna è già, socialment­e e culturalme­nte, uno svantaggio in una società tradiziona­lmente maschilist­a come la nostra. Quando a questo si assomma un rapporto lavorativo precario, come è uso oggi, le possibilit­à del ricatto, anche inconsapev­ole, si ampliano a dismisura. Tanto più se sei straniera, e tanto più se l’ambiente di lavoro è caratteriz­zato dalla vicinanza tra le persone. In questo senso la parola «dipendente» assume un significat­o profondame­nte ambiguo. Proprio in quanto «dipendi», tanto più sei costretta ad «acconsenti­re». Accade tutti i giorni, è ipocrita negarlo. Quale sia la soglia oltre la quale il fastidio si trasforma in sopruso è questione soggettiva e oggettiva: riguarda insieme la singola e la legge. Ma è necessario che l’una o l’altra, prima o poi, dica chiarament­e: «Basta».

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