DIPENDENTI E PRECARIE
Che brutto scenario si intuisce dietro la vicenda che coinvolge «Bergamo Bistrò», un locale del centro contro cui i sindacati hanno già fatto 20 giorni di sciopero. Non solo, sono in ballo denunce e querele, ma le ragioni non sono salariali o normative. Il fatto è che un gruppo non piccolo di dipendenti donne ha denunciato un clima insostenibile di prevaricazioni sessiste e xenofobe, compresa una presunta violenza sessuale da parte di un cuoco che sarebbe stato coperto dai titolari. Naturalmente, sarà la magistratura a stabilire una verità giudiziaria. Ma — al di là del fatto che si voglia credere alle dipendenti o ai gestori — si percepisce facilmente, dietro le querele e i termini legali, l’esistenza di una oggettiva zona grigia nelle relazioni tra salariate e datori di lavoro. Essere donna è già, socialmente e culturalmente, uno svantaggio in una società tradizionalmente maschilista come la nostra. Quando a questo si assomma un rapporto lavorativo precario, come è uso oggi, le possibilità del ricatto, anche inconsapevole, si ampliano a dismisura. Tanto più se sei straniera, e tanto più se l’ambiente di lavoro è caratterizzato dalla vicinanza tra le persone. In questo senso la parola «dipendente» assume un significato profondamente ambiguo. Proprio in quanto «dipendi», tanto più sei costretta ad «acconsentire». Accade tutti i giorni, è ipocrita negarlo. Quale sia la soglia oltre la quale il fastidio si trasforma in sopruso è questione soggettiva e oggettiva: riguarda insieme la singola e la legge. Ma è necessario che l’una o l’altra, prima o poi, dica chiaramente: «Basta».