Il Cavaliere che risollevò il tessile
L’imprenditore è stato trovato senza vita nella sua casa di Città Alta Protagonista della scena industriale e del boom del gruppo di famiglia
Èstato trovato morto nella sua casa di Città Alta Silvio Albini, da decenni alla guida del gruppo tessile che porta il nome della famiglia. E che sotto la sua guida si era sviluppato anche all’estero. I sindacati gli riconoscono di avere affrontato la crisi con lungimiranza.
Il primo pensiero, al rapido tam tam della notizia, è che fosse malato e lo avesse nascosto a tutti: capita di trovarsi davanti ad atti di estrema riservatezza. Ma Silvio Albini, trovato morto ieri, non era malato. Lamentava da qualche tempo, questo sì, i forti dolori di un’ernia del disco, ma un ciclo di iniezioni cominciato giovedì scorso gli aveva dato sollievo e la gioia di riprendere a camminare in Città Alta.
L’ultimo giretto sabato scorso. Solito tragitto, da Palazzo Brembati, in via Lorenzino sul curvone di Porta San Giacomo, fino alla Corsarola per il caffè e le piccole spese di pane e frutta (era facilissimo incontrarlo nei negozi) e poi ritorno a casa. Qui, ieri mattina, la donna delle pulizie ha trovato il corpo privo di vita dell’industriale, vittima di un malore si pensa nella notte tra sabato e domenica. Nemmeno il tempo di allertare i parenti o i soccorsi. Fulminante e violento come possono esserlo solo certi infarti o ischemie. Solo questo riesce a giustificare e pacificare l’improvvisa morte di un uomo che l’11 dicembre scorso aveva compiuto 61 anni.
Il «re delle camicie», presidente e amministratore delegato dell’omonimo gruppo tessile di Albino, se ne è andato così, mentre nella Bergamo dell’industria e delle conoscenze, trafitta da una profonda incredulità, fin da subito hanno cominciato a riaffiorare le opere e i giorni dell’uomo. La sua inconfondibile «r» moscia, gli occhiali con la fine montatura dorata, la gentilezza che non era mai affettazione,
La salute Non risultava avere gravi problemi, si stava riprendendo da un’ernia al disco
le cravatte colorate e le fantasie delle sue camicie: Silvio Albini era l’essenza stessa del suo stile aziendale. In lui, nei suoi modi, si riflettevano il garbo, la qualità e l’eleganza dei prodotti del Cotonificio di famiglia, fondato 142 anni fa.
Gli Albini di Albino. Un’azienda indenne ai salti generazionali (siamo al quinto), capace di attraversare gli anni della crisi del tessile e di crescere nel segno di una qualità inconfondibile, di cui Silvio Albini fu fautore e di cui andava fiero. Certo ci sono i clienti eccellenti, vip e teste coronate d’Inghilterra e di Spagna (nel 1992 il gruppo acquisì due storici marchi inglesi, Thomas Mason e David & John Anderson), ma per il sentire industriale di Silvio Albini ogni cliente era importante.
L’entusiasmo con cui aveva annunciato il servizio su misura (tempo tre giorni e l’ordinativo di una camicia taylor made viene evaso in qualsiasi angolo del mondo) dava l’idea di una passione intatta. Inscalfibile e inimitabile anche nei risultati: ricavi per 147 milioni, oltre 1.400 dipendenti, export in oltre 80 Paesi per un Gruppo che, ora più che mai, dovrà far leva sul valore famigliare per sostituire il suo timoniere. Che molte «navi» hanno imbarcato; da Confindustria Bergamo, dove ha ricoperto la carica di vice presidente con Andrea Moltrasio e Carlo Mazzoleni, alla Banca Popolare Commercio & Industria, nel cui cda era approdato nel triennio 2014-16 guidato da Alberto Barcella. O ancora la presidenza di Milano Unica, il salone italiano del Tessile: incarico che Silvio Albini aveva lasciato, dopo 4 anni, nell’autunno del 2015. Nel suo discorso inaugurale, in un momento delicatissimo per il comparto, non aveva esitato a chiedere all’allora presidente del Consiglio Mario Monti un sostegno concreto.
Il fatturato «è dignitoso», l’andamento «è tutto sommato buono» e «in linea con le previsioni»; questo era il suo modo di commentare gli andamenti dell’azienda. Mai sopra le righe: le uniche righe da superare erano quelle dei suoi tessuti. Descrivere i motivi, le nuove fantasie alla vigilia delle nuove collezioni, di un Pitti Uomo era motivo di soddisfazione. Contenuta, però, come contenuto fu il commento al Cavalierato del Lavoro di cui fu insignito tre anni fa: «Non so quanto ho meritato». Amava l’arte. In occasione della festa che la Fondazione Bernareggi, di cui era presidente, aveva organizzato per i 100 anni di Longaretti disse: «In quelle tele riconosco valori di tenerezza, compassione e consolazione». Valori capaci di attraversare il dolore e trasformarlo nella forza che Albini lascia in eredità ai suoi. Familiari e dipendenti.