In quelle lacrime del patron la dignità rimasta nel mondo del calcio
La Storia, anche quella sportiva, è fatta di gruppi e moltitudini, come gli undici in campo giovedì a Dortmund e i cinquemila (o seimila…) fantastici tifosi sugli spalti. Ma è fatta anche di individui; e di gesti che, nella loro unicità, raccontano una vita in un attimo. Ce ne sono stati due, nel Westfalenstadion, di questi gesti.
Il primo all’inizio della partita, quando Antonio Percassi è andato sotto la curva dei nostri a salutarli. E a piangere come un ragazzino, emozionato da quello che aveva di fronte e di cui, essendone responsabile, aveva capito la grandezza. Non sono un agiografo di Percassi, che in un altro contesto verrebbe descritto come un imprenditore ricco e abile. Ma sotto la curva, in quel momento, c’era solo un uomo di sessantaquattro anni commosso da quello che la vita gli aveva offerto in sorte. Percassi è diverso dagli altri presidenti di serie A: non ha gli occhi a mandorla, non veste firmato come Lotito, non ha l’aria trendy degli Agnelli, non fa il buffone come Ferrero.
Quell’uomo in un indistinto giubbotto nero, con la barba lunga e gli occhi umidi, era — in tutto e per tutto — un bergamasco qualunque. E, da regista, non posso non considerare come si svolge la sequenza del video che lo immortala. Percassi si incammina sotto la curva, saluta, viene a sua volta accolto con ovazioni, torna indietro, piange. Solo a quel punto si accorge che qualcuno lo sta filmando: e ha un moto di vergogna, di uno che non vorrebbe farsi vedere così. E lì capisci cosa Antonio Percassi possiede rispetto a tanti altri che bazzicano il dorato mondo del calcio: la dignità.
Poi, c’è l’immagine di Gasperini al gol del pareggio di Ilicic. Guardate cosa succede: mentre tutti saltano in aria catapultandosi in campo, lui
Grazie, Percassi e Gasperini E adesso portateci dove abbiamo capito di poter arrivare
tende le mani verso il basso e torna indietro verso la panchina, come un salmone controcorrente. Perché sembra non partecipare alla gioia collettiva, lui che con tutta evidenza è un edificatore di gruppi compatti e motivati? Io credo che in quel momento, anche solo per un secondo, Gasperini non potesse stare altro che da solo con se stesso.
Era lo stratega che aveva accettato la sfida, che ne aveva costruito la tattica e che adesso ne vedeva il risultato compiersi come l’esatta dimostrazione di un teorema. Sono momenti che — prima di essere condivisi — hanno bisogno della stessa solitudine nella quale vengono costruiti. Riguardatevi uno dei più bei film di sport che siano mai stati girati: Ogni maledetta domenica di Oliver Stone. Non solo per la famosa sequenza del discorso di Al Pacino nello spogliatoio prima della partita, che altro non è che la versione hollywoodiana del credo di Gasperini. Ma anche per quell’altra immagine: mentre tutti festeggiano la vittoria, l’allenatore se ne sta in disparte, insieme sorridente e pensoso. È felice, ma la sua felicità è diversa da quella degli altri.
Grazie, Percassi e Gasperini. E adesso portateci dove abbiamo capito di poter arrivare.