Moro dalla Siberia «Una spedizione dell’altro mondo»
«Dagli Ottomila non mi sono abbassato di livello esplorativo, l’ho solo cambiato»: così Simone Moro, da Mosca, dove è rientrato dalla spedizione in Siberia con la collega alpinista Tamara Lunger e il fotografo Matteo Zanga (autore di questa immagine). «Ne parlerò nel mio prossimo libro».
Lo abbiamo sentito urlare «Eccoci!», li abbiamo visti euforici e sfiniti sulla vetta, le ciglia di cristallo e intorno creste di ghiaccio a perdita d’occhio. Simone Moro, 50 anni, e Tamara Lunger, 31, sono riusciti nell’impresa di scalare in inverno il picco Pobeda, la vetta più alta della Siberia, nella zona abitata più fredda del pianeta: 3003 metri che scritti così, nero su bianco, sembrano una passeggiata rispetto al Makalu o al Nanga Parbat, due dei quattro Ottomila scalati per la prima volta in inverno dall’alpinista bergamasco. Ma è la colonnina di mercurio a rendere onore all’impresa: alle 15.37 dell’11 febbraio sulla cima si ghiacciavano le lacrime agli occhi: - 35 la temperatura, «mite» rispetto ai -50 toccati in alcuni momenti della spedizione. Della loro impresa ci sono arrivati video e immagini postati su Facebook, ma dopo l’atterraggio a Mosca ecco i primi racconti, con lo sguardo ancora rapito da un altro mondo. Sette ore per salire, quattro per tornare al campo base, 27 chilometri percorsi in puro stile alpino senza soste per 2.042 di dislivello, protetti da un cielo nuvoloso e neve continua che hanno scongiurato temperature più rigide. «Rispetto alle spedizioni sugli Ottomila, qui il maltempo ha giocato un ruolo diverso — prosegue Moro — Se in Himalaya aspetti al campo base finché il cielo non diventa sereno, in questo caso il maltempo è stato un alleato perché il coperto ha offerto temperature più «miti», tra i 30 e 40 gradi sotto zero, superabili».
«In confronto al freddo himalayano — prosegue Lunger — questo è completamente diverso. In queste condizioni c’è molto più ossigeno a disposizione quindi il corpo è in grado di produrre più calore e si va più velocemente, il freddo non l’ho sofferto tanto quanto pensavo». Timori che all’inizio l’avevano frenata. «Tamara ci ha messo due mesi a decidere se venire con me — sorride Moro —: alla fine si è convinta vedendo i filmati dei nomadi che vivono lì, gente che in cantina non tiene il vino ma cubi di ghiaccio che sciolgono per avere l’acqua; si passa da cinque ore di luce in inverno a ventidue in estate: è un mondo estremo, da scoprire. Oggi esiste Google Earth e possiamo vedere ogni angolo del pianeta, ma l’esplorazione è sensoriale, bisogna andare a vedere e toccare».
Dove non arriva il soccorso alpino
Ma perché proprio la Siberia? «La Siberia era un luogo che non conoscevo — racconta Moro —. Volevo andare in un posto in cui prevalesse l’elemento esplorativo più che la fama della vetta da conquistare. Volevo un compagno di cordata, ed è stata Tamara, e volevo un protagonista che non fossimo né io né lei, ma un mondo da conoscere attraverso una scalata. Sono conosciuto come l’alpinista del freddo, allora mi sono chiesto: proviamo a vedere se ci sono montagne nel luogo abitato più freddo del pianeta». La scelta cade sui monti Cherskij, una catena praticamente inesplorata a nordest della Siberia, finita sugli atlanti grazie a un esploratore polacco esiliato dagli zar, con temperature record oltre i -70. Un territorio mai addomesticato: «La maggior parte di queste montagne non hanno nemmeno un nome, sono luoghi molto selvaggi, devi avere la consapevolezza che qui non devi farti male. Perché l’esplorazione è là dove ti esponi a situazioni in cui l’unica cosa che ti può salvare è l’arte della sopravvivenza, che è una capacità tua, non qualcosa fuori di te. Qui non arriva il soccorso alpino a salvarti».
Tre giorni sulla Strada delle Ossa
Un territorio che è già un’avventura raggiungere. Dopo l’imbarco, proprio su un volo Pobeda, da Bergamo a Mosca, gli alpinisti hanno dovuto prendere un altro aereo interno da Mosca a Yakutsk e un altro da Yakutsk a Ust’Nera; da qui il loro viaggio è proseguito con una 4x4 fino a Sasyr e da lì con le slitte fino alle casette dei nomadi, il campo base. «Lì c’è stato l’incontro con le persone che questo freddo non lo cercano per un’esplorazione ma lo vivono tutti i giorni, gente che nasce, cresce e muore allevando e curando renne in modo antico. Sono stati compagni di cordata: non sono saliti con noi sulla vetta ma senza di loro non saremmo mai riusciti. Ci hanno fatto provare anche l’esperienza della slitta trainata dalle renne». Il ritorno, ancora più lungo e impervio, per scelta stavolta, tra il Nera e la Kolyma, dove l’Unione Sovietica mandava criminali e dissidenti condannati ai lavori forzati: «Abbiamo deciso di fare il tragitto in auto per percorrere la Strada delle Ossa, chiamata così per i tanti prigionieri morti nel costruirla: ci abbiamo impiegato tre giorni per percorrerla. Non ci sono cippi, ma un museo, che ricorda i morti nel gulag».
Esplorazione orizzontale
Come i grandi esploratori del passato, anche Moro sposta sempre oltre le sue Colonne d’Ercole: «Dopo gli 8000 in inverno, avevo deciso di mettermi alla prova nel posto più freddo. La scalata non è stata facile: 3003 metri non sono una passeggiata. Ma dagli Ottomila non mi sono abbassato di livello esplorativo, l’ho solo cambiato. Anche Bonatti e Messner sono passati dalla grande conquista verticale alla esplorazione di spazi orizzontale. Gli altri sono stati successi più blasonati, ma questa per me è stata una spedizione speciale: l’incontro di esploratori occidentali con un mondo orientale estremo. Sarà il tema del mio prossimo libro: una storia di successo su una montagna, Pobeda, che in russo significa vittoria, con due piccoli esploratori italiani alla scoperta di un territorio grandissimo».
Nel mio prossimo libro Due esploratori occidentali incontrano un mondo orientale estremo. Dagli Ottomila non mi sono abbassato di livello esplorativo, l’ho solo cambiato
In confronto al freddo himalayano questo ha molto più ossigeno, quindi il corpo lo sopporta meglio Tamara Lunger