Sosta e silenzio Con zero comunicazioni
La vita continua. O almeno dovrebbe continuare. Il treno no. Parte da Lambrate, per qualche minuto procede a ritmo blando, avanza sempre più lento, dà una lunga sfiatata e poi s’accascia. D’andare avanti non vuol saperne. S’è piantato come un mulo e da mezz’ora non si muove più. Immobile nel buio, sfiorato da un’eco lontana del mondo. All’ora di cena s’è bloccato proprio lì, all’altezza dello scambio maledetto. In un luogo, che inevitabilmente si fa tempo. Un foglio di calendario con la data del 25 gennaio. Le lancette che segnano le 7 del mattino. Una coltre di nebbia squarciata dal fragore del deragliamento. Il boato spaventoso dello schianto. Le urla dei vivi e il silenzio dei morti. Il treno è fermo, i minuti corrono. E intanto tutto tace. Come se la sosta fosse programmata. Comunicazioni zero. Dalla cabina nessuno spiega e nessuno si scusa per il disagio. Di solito basta molto meno. Dieci minuti e volano le prime imprecazioni. Questa volta no. Sembra di essere in biblioteca. Si avvertono i colpi di tosse. C’è chi tiene gli occhi sul telefonino e salta da un’applicazione all’altra per avere le informazioni che qui nessuno gli dà. C’è chi spalanca quadernoni fitti d’appunti e si mette a studiare. C’è chi rimane col naso spiaccicato sul finestrino e guarda fuori come se la notte potesse restituire le immagini del disastro. «Il mio treno è passato un quarto d’ora prima», bisbiglia la donna che mi sta accanto, «chi lo sa, questione di millimetri, dieci chilometri in più di velocità, e magari sarebbe capitato a me e alle mie colleghe». Torna il silenzio. In un modo o nell’altro le tragedie appartengono a tutti. Tranne a chi le provoca.