Il pellegrinaggio alle Vallette La vana speranza e il rito che si ripete da (troppi) anni
Il tifoso neroblù emigrato a Torino conosce bene un rito che, nel caso del sottoscritto, si ripete costante da vent’anni: il pellegrinaggio alle Vallette. È un rito che, secondo gli antropologi, ha sorprendenti corrispondenze con certe cerimonie pasquali del Sud Italia, in particolare con la famosa processione dei Battenti di Guardia Sanframondi, dove i fedeli camminano flagellandosi a sangue e offrendo la loro sofferenza a Dio. Il pellegrinaggio alle Vallette ha uno svolgimento immutabile. Il luogo è sempre lo stesso, anche se ha cambiato nome durante gli anni: lo stadio che sorge in fondo a corso Grosseto. Il tifoso atalantino vi si reca quasi sempre animato da una speranza illogica, temperata da presagi funesti. Cammina tra una folla ostile, vestita a zebra, ben attento a non farsi riconoscere. E questa è già un’umiliazione, oltre che un’ovvia misura di sicurezza. Il rito si svolge sul campo del suddetto stadio, ed è celebrato da undici officianti vestiti di neroblù e undici vestiti di bianconero. Viene compiuto in mezzo alle urla belluine della folla e prevede sempre lo stesso finale: quelli vestiti di neroblù vengono fatti a pezzi da quelli vestiti di bianconero. Lo spettacolo può essere più o meno cruento, a seconda della condizioni oggettive o della crudeltà del destino. Si ricordano goleade, e anche sconfitte di misura. Ma il finale è sempre quello: i neroblù escono dal campo a capo chino, mentre gli altri fanno festa. Anche il tifoso esce a capo chino. Se è fortunato torna a casa in auto e può piangere in silenzio. Se è sfortunato, gli tocca una mezz’ora sul 3 o sul 9 barrato, in compagnia di quelli vestiti da zebra, ad ascoltare commenti che sono altre piaghe inferte al cuore già dolente. A casa, tira fuori le figurine di Evair e Caniggia, gli ultimi capaci di sovvertire il rito; sospira, le mette via, e si prepara, rassegnato, alla prossima volta.