L’inventore del colore
Al monastero di Astino dall’11 maggio al 31 agosto la mostra fotografica dedicata a Franco Fontana: «Il compito dell’arte è rendere visibile l’invisibile»
Puntuale, e benvenuto, torna ad Astino, dall’11 maggio al 31 agosto, l’appuntamento con fotografia e paesaggio, curato con la consueta passione da Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Dopo Luigi Ghirri nel 2016 e Mario Giacomelli nel 2017, quest’anno tocca a un altro «peso massimo» della fotografia italiana emerso negli anni Settanta per poi assurgere a fama internazionale: Franco Fontana. Si tratta di una perfetta trilogia di «meditazione» sul rapporto tra fotografia e territorio, e sul senso profondo di quell’attività apparentemente così ovvia che è guardare.
Ciascuno dei tre artisti presentati nel corso del tempo ad Astino può essere letto attraverso una chiave particolare. Se Ghirri è il fotografo dell’inquadratura e Giacomelli quello della luce, Fontana può essere considerato il fotografo del colore. La prima cosa che colpisce anche l’osservatore più disattento negli scatti di Fontana (nato a Modena nel 1933) è il cromatismo al limite tra naturale e artificiale. Oggi, nell’era del digitale e dei display retroilluminati, la luminosità delle sue opere può sembrare meno sorprendente: ma non dobbiamo dimenticare che quel modo di fotografare fu inventato dall’autore quaranta anni fa; e brillò subito per originalità e coerenza di ricerca artistica. L’obiettivo della sua pratica è programmatico: «Il compito dell’arte è di rendere visibile l’invisibile». Ma la mostra di Astino cerca di andare addirittura oltre, «Dietro l’invisibile», come recita il titolo.
E quale sarebbe dunque il luogo in cui cercare questo specie di sacro Graal visivo? In realtà, il quotidiano intorno a noi. Fontana non fotografa posti esotici, situazioni straordinarie, personaggi estremi. Il suo campo di ricerca è la natura italiana, come nel caso dei suoi panorami di campagna; o le città occidentali che tutti percorriamo, spesso troppo in fretta per renderci conto delle molte «porte» sull’invisibile che si aprono intorno a noi. Ed è lì che l’occhio di Fontana interviene — scovando prospettive, sovrapposizioni, giochi di luce, sospensioni temporali che l’elaborazione del colore enfatizza fino a fare sembrare le sue fotografie scatti da un altro mondo. Eppure è il novolta stro, basta accorgersene: rendere visibile l’invisibile, appunto. Perché, come aveva intuito Giacomo Leopardi: «Dietro un paesaggio c’è sempre un altro paesaggio...».
Ecco perché le fotografie sono quasi sempre definite non da un titolo, ma solo da un luogo e da una data: «San Francisco 1979», «Praga 1967», «Modena 1977». Come coordinate geografiche, questi scarni riferimenti servono solo a testimoniare la realtà fisica e temporale dello scatto, perché il soggetto è invece sempre lo stesso: il mondo in quanto tale, e i sorprendenti misteri che nasconde, una che ci si conceda l’occasione di considerarli. Anche l’umanità partecipa di questa meraviglia. A differenza di Ghirri, che evita quasi sempre di ritrarre persone, Fontana talvolta le integra nell’inquadratura come una specie di epifania disincarnata: apparizioni di comparse su un palcoscenico — oppure, semplicemente, ombre, come nella serie di fotografie americane che fanno parte della mostra.
Come sempre, Astino è la cornice perfetta per una visita. La sua collocazione e la sua architettura, gli spazi che sagomano il complesso, costituiscono una specie di «secondo tempo» alla visione delle opere. Danno la possibilità di mettere subito in pratica la lezione imparata da Ghirri, Giacomelli o Fontana: guardare il mondo con occhi nuovi e curiosi.
Il campo di ricerca di Fontana è la natura italiana, come nel caso dei panorami di campagna; o le città occidentali che percorriamo