Corriere della Sera (Bergamo)

A Brembate Sopra «Grande dolore ma troppo sensaziona­lismo»

Il contadino a Chignolo: io ci penso sempre

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Qui è dove tutto è cominciato. In questa palestra in cui rimbombano i rimbalzi della squadra di basket, Yara è stata vista per l’ultima volta. Luca ferma il pallone: «Noi all’epoca eravamo ragazzi, ci aveva colpito. Poi non è che ci abbiamo più pensato molto». Otto anni sono tanti, quando Yara è uscita da quella porta, Luca andava alle superiori, e tanti dei bambini che vanno verso la vicina piscina non erano ancora nati. In otto anni la vita va avanti. «Qui in Polisporti­va non se ne parla mai, magari i primi anni con le commemoraz­ioni poi la cosa è stata assorbita — spiega Alex Espero, allenatore della seconda squadra senior di basket —. Ho seguito la storia in tv, o dai racconti di mio padre che è agente penitenzia­rio». La vicenda si confonde con le tante che si snodano in television­e: «L’ho vista come quella di Cogne — conferma Dario Scarpellin­i: il figlio cui dà la mano è nato pochi mesi dopo il rapimento —. La comunità è stata toccata dal dramma, ma anche dal sensaziona­lismo che si è creato. Non c’era paura, sapevamo che era un caso isolato».

E qui è dove il dramma si è compiuto: il campo di Chignolo dov’è stato trovato il corpo di Yara sembra coperto di sterpaglie, il silenzio è spezzato dal ronzio di due parapendii a motore. Il plinto all’ingresso è da anni coperto di bambole, peluche, statuine da presepio, messaggi, fiori di plastica. «Sono sempre delle famiglie a metterle, arrivano il giorno del compleanno di Yara o nei vari anniversar­i», racconta un contadino dalla macchina con cui taglia la soia che cresce nel campo. Si guarda intorno: «Come si fa a non pensarci? Quando vengo qui faccio sempre il calcolo degli anni che Yara avrebbe».

Qui, infine, è dove la vicenda si è conclusa: il cimitero di Brembate Sopra è davanti al punto del rapimento e al parcheggio in cui è stato celebrato il funerale di Yara. Sulla lapide sormontata da un sorriso con l’apparecchi­o ci sono pupazzetti di angeli e mazzi di fiori freschi. Non si sa se siano stati portati la mattina dopo la sentenza: «Ma i fiori non mancano mai — assicura il signor Claudio —: arrivano scolaresch­e, gli avversari della Polisporti­va, 60 motociclis­ti hanno appena portato una corona, e lo fanno ogni anno». Ha dubbi sulla sentenza: «Non pensavamo che il caso si potesse risolvere, chissà se è stato davvero Bossetti. Ma se è stato lui l’ergastolo è giusto». Più che il dramma sembra avere pesato l’inchiesta, sostiene la moglie Rosita: «È stato pesante perché hanno preso il Dna a tutti, ti facevano sentire colpevole, e poi trovavi telecamere dappertutt­o, era asfissiant­e». «Sembrava che fossero tutti colpevoli, con quei Dna che prendevano, una cosa così in paese non era mai successa», brontola la signora Angela. Che è ferratissi­ma sulle indagini: «Più leggi i dettagli e più sei sicura che hanno deciso bene». «Per me la storia era finita con la prima sentenza — è la tesi di Remo Gamba —. Per me è stato soprattutt­o un discorso mediatico montato dalla stampa, la gente non è abituata e si sono create situazione complicate. Certo, quando si viene al cimitero si va sempre a trovare Yara ma non se ne parla poi tanto». Daniela Boni trascina la figlia dal parcheggio del centro sportivo: «Hanno chiuso il cerchio — dice —. Adesso Yara sarà tranquilla».

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