IL PROF AGGREDITO E LE LEZIONI MANCATE
Ha ragione la dirigente dell’I.C. Cameroni di Treviglio a chiedere riservatezza sulla vicenda del ragazzo di 13 anni sospeso una seconda volta da scuola per comportamenti violenti nei confronti di un docente. «Non credo, ha aggiunto, che il clamore possa aiutarci ad intervenire; semmai rappresenta un ostacolo ulteriore». Clamore mediatico e pulviscolare cinguettio dei gruppi social sono, infatti, quanto di più lontano si possa immaginare dalla possibilità di risolvere in maniera educativa problemi relazionali e disciplinari come quelli che, purtroppo, affliggono, in modo esplicito o, peggio ancora, sotterraneo, non solo il Cameroni, ma buona parte delle scuole secondarie italiane. L’educazione, infatti, richiede presenza costante, sguardi partecipi, ascolti, conversazioni non di circostanza, condivisione di esperienze, empatia, corresponsabilità, attenzione l’uno alle storie dell’altro, elaborazione di progetti comuni, prudenza. Se efficace, non può, dunque, avere tempi accelerati, a cottimo, ma lunghi e lenti, da lumaca che, come dice il proverbio, va piano e lontano. La vicenda accaduta al Cameroni, tuttavia, merita almeno una riflessione. Sono ormai decenni che l’Europa e il mondo intero insistono con chilometri annuali di carte perché si prenda sul serio il principio secondo il quale non si apprende solo a scuola.
Dopo tutti questi decenni, stupisce, però, che ancora ci si comporti in maniera tale che o un ragazzo, per imparare e crescere, si debba adattare alla scuola che c’è, con la partizione delle classi, delle discipline, degli orari e dei docenti che ben conosciamo, oppure sia visto come un disadattato. La buona scuola e i bravi insegnanti, d’altra parte, non si riconoscono con gli studenti che non hanno problemi di apprendimento e di comportamento, ma con quelli che li hanno. Per loro, infatti, va trovato un modo diverso, nella legge 53 del 2003 si diceva «personalizzato», di imparare e di relazionarsi con gli altri. La Montessori, ai suoi tempi, chiedeva che i bambini di due anni, per educarsi bene, dovessero «lavorare»: apparecchiare e sparecchiare il tavolo per consumare insieme i pasti, attrezzare ambienti di gioco, riporre le cose al posto giusto, costruire giocattoli o oggetti utili (e non acquistarli, magari a ritmo industriale). A cento anni da questo autorevole insegnamento, nemmeno a 20 anni d’età, oggi, il «lavorare» è considerato da scuola, mass media, famiglie, parti sociali un percorso per imparare conoscenze, competenze e relazioni che abbiano pari, ancorché diversa, dignità rispetto a quelle scolastiche ed accademiche. Non c’è dubbio, per fare questo servirebbe un’altra preparazione dei docenti. E soprattutto una modalità di reclutamento diversa da quella vigente che tende a riprodurre all’infinito l’atteggiamento scolasticistico. Senza per questo giustificarlo, se il 13enne di Treviglio avesse però avuto l’opportunità di percorsi educativi istituzionali alternativi alle tradizionali lezioni si sarebbe comportato così?