Come tortorelle in volo
In «Tutto il male viene da fuori» Volpi affronta il tema della paura Da Edipo ai casi di cronaca in tv con un focus sul tradimento
Non solo le cronache e le fiction, ma anche la storia e la letteratura indicano, in cima ai sentimenti più diffusi nel XX Secolo e l’avvio di quello nuovo, la paura. Sì. Ci comportiamo ormai quasi tutti come le tortorelle ricordate da Marcel Beyer. Non abbiamo paura solo quando siamo colpiti e abbiamo certezza di chi ci ha attaccato. No. Facciamo come quegli uccelli che, all’udire una fucilata, anche lontana, neppure sfiorati da un pallino, si fermano a mezz’aria e lasciano cadere piume, imitando le conseguenze di una ferita che non c’è stata, per poi riprendere il volo più deboli. Insieme alla paura, poi, un’altra convinzione s’è allargata a macchia d’olio: il nemico è quasi sempre straniero, chi è pronto a colpire non è dei nostri. Insomma: Tutto il male viene da fuori, come titola il nuovo libro di Alberto Volpi, bergamasco, insegnante, dottore di ricerca in Teoria e analisi del testo all’Università di Bergamo, già autore di pubblicazioni convincenti (si ricorda qui Miti di leadership per Mimesis).
Il volume (Lubrina) presenta tre testi abbastanza legati fra loro, senza introduzioni e conclusioni, dove convivono erudizione e fantasia, citazioni di autori e personali intuizioni, una scrittura raffinata e un andamento non sempre facile da seguire, somma di prospettive e coerenza di fondo, vocazione alla trama e indugio sui dettagli. Il primo capitolo ha lo stesso titolo del libro, il secondo «Donne, bambini, paure», il terzo (a riequilibrare la tesi drastica di partenza?) «Il male che viene da dentro: il tradimento».
Così ecco un abbozzo del consorzio umano pronto — dall’antichità (la Tebe di Edipo) al ‘900 (l’Europa prefigurata da Kafka) — a individuare in chi «viene da fuori» il responsabile di ogni male (si chiami decadenza, immoralità, pestilenza) e, fra i due estremi, ecco soste interessanti nel Medioevo come nell’età industriale, con particolare attenzione alle figure dei teatranti, saltimbanchi, girovaghi, circensi, giullari narranti una fame spaventosa (che è pure la loro). Ed ecco i rimandi a Dickens e alle sue incursioni proletarie e prima al Verga, a Silvio d’Arzo e poi ad Adorno, Benjamin, Pirandello e al Gran Teatro di Oklahoma. Scrive Volpi: «In tutta la storia teatrale finora considerata gli attori, oltre a coincidere con chi viene da fuori, rappresentano tutto il fascino contagioso dell’altrove, le notizie lontane, i costumi bizzarri, i pericolosi desideri di fuga, il timore dello sconosciuto; qui tutto ciò che viene eliminato». Il secondo scritto riprende il discorso sulle paure collettive, in particolare l’insidia portata a donne e bambini. E qui certi passaggi invece che sfumare nell’incompiutezza o raccordarsi alle riflessioni successive, fermarsi sui miti o le fiabe e riprendere rapidamente (e torna l’idea del «raid»), si fanno denuncia dei media con i loro tuffi nell’orrore su casi di pedofilia, maltrattamenti, bimbi scomparsi, mentre davanti al piccolo schermo ciascuno coltiva «il suo piccolo incubo di cospirazione».
Nel terzo saggio Volpi, proseguendo il suo dialogo con la tradizione risorgimentale (sulla scia di Alberto Mario Banti), presentato il tema del tradimento (L’ordine violato. Il tradimento nell’opera di Alessandro Manzoni, titolava già un suo libro), considera come il pensiero romanticorisorgimentale (Berchet e Mazzini) abbia utilizzato il tema per fondare la nazione ricorrendo anche ad uno stile più semplice. «Così la formazione romantica del Berchet lo condusse all’epoca medievale, nella quale si rinveniva l’unione, in interessi contingenti da difendere, delle municipalità ostili e delle classi sociali divise». Ecco allora l’epopea delle città lombarde: «L’han giurato. Li ho visti in Pontida/ convenuti dal monte, dal piano/. L’han giurato; e si strinser la mano/ cittadini di venti città…».