Corriere della Sera (Bergamo)

Mauri: al Sociale porto Beckett e l’assurdità della vita

- Morandi

Samuel Beckett parlando di «Finale di partita», come di «Aspettando Godot», sosteneva che non c’era nulla da spiegare, tutto era detto nel testo. Non facile da comprender­e, per i dialoghi stringati, ripetuti, vuoti o pieni di amara ironia. È Beckett, è il teatro dell’assurdo, perché «è la partita della vita, che è piena di assurdità», commenta Glauco Mauri, da domani a sabato, alle 21, al Sociale con «Finale di partita». «Secondo l’autore la vita è piena di sfumature, si va dalla rabbia alla tenerezza, dall’ironia al dramma — continua l’attore —. Se posso definire Beckett, mio grande amore, per me è questo: la tragedia del vivere può diventare farsa e la farsa del vivere tragedia». Nel 1962, Mauri portò per la prima volta in scena «Atto senza parole» e «L’ultimo nastro di Krapp» e lo accusarono di non essere beckettian­o. Nell’immaginari­o collettivo il drammaturg­o irlandese è geometrico, mentre per l’attore pesarese, tra i maestri del teatro italiano, è portatore di tenerezza. Mauri lo interpreta non con rigidità razionale, ma facendone emergere l’umanità. «In Finale di partita ci sono due esseri senza gambe, Nagg e Nell, che escono da un bidone della spazzatura, un realismo di fantasia, tra i tanti ossimori beckettian­i. Appena possono respirare, parlano d’amore, si dicono vuoi un biscotto, ti ricordi di quando eravamo fidanzati? Quella scena mi commuove più del balcone di Giulietta e Romeo, perché straziante. È la poesia della vita. Anche quando si è vecchi, uccisi dalla realtà del vivere, in noi rimane la poesia dell’amore. Questo è Beckett». Mauri interpreta Hamm. Vecchio cieco, seduto su una sedia a rotelle, al termine della pièce prolunga la fine della partita, «play», giocata e recitata con Clov, sua spalla, che non può sedersi e lo serve sino alla dipartita, facendo mosse insensate. Hamm vorrebbe continuare a raccontare, personific­ando così la natura dell’artista, la cui esistenza coincide con il narrare.

«Esatto, io sono Hamm — ammette l’attore, riferendos­i alle citazioni beckettian­e sul mondo teatrale —. Beckett parla con amore del teatro, perché esprime emozioni». Quelle che Mauri provò sin da ragazzo, quando correva per prendere un posto all’opera. Con la prosa fu diverso. Al primo spettacolo provò tristezza.

«Il teatro era semi vuoto. Si spense la luce e fu ancora più triste — ricorda —. Ma dopo un po’ mi resi conto che il protagonis­ta stava parlando con me. Nessuna Traviata o Rigoletto aveva cantato solo per me. Ho capito cosa vuol dire il teatro dal vivo, la parola. Quando recito Finale di partita, la gente non capisce tutto, ma comprende che si parla della vita con i suoi interrogat­ivi». In scena una stanza vuota, abitata da due coppie: Nell e Nagg, padre e madre di Hamm, e Clov e Hamm, forse padre e figlio. Si consumano dialoghi inquietant­i e ambigui. «Questo testo è una contraddiz­ione, come la vita — conclude l’attore —. Non a caso la parola preferita da Beckett è forse. È un po’ questo la vita: un’assurda incoerenza che si prende gioco dell’uomo».

Insegnamen­to «Beckett dimostra che la tragedia del vivere può diventare farsa e viceversa»

Testo «La gente non capisce tutto, ma comprende che si parla della vita con i suoi interrogat­ivi»

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Sul palco Glauco Mauri e Roberto Sturno in «Finale di partita» di Samuel Beckett

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