Scialpinismo e Orobie: un film sulle «Traversiadi»
Sarà proiettato venerdì a Nembro e sabato 14 a San Pellegrino Da Varenna a Carona di Valtellina: un film ripercorre la grande traversata scialpinistica inaugurata nel ’71
Nella mitologia greca, le Iadi erano ninfe dei boschi, delle fonti e delle paludi. A loro si è ispirata la vicenda umana per battezzare l’ammasso aperto e spettacolare di stelle che vediamo nella costellazione del Toro. Tra questi due mondi sembrano essersi mossi Maurizio Panseri e Marco Cardullo quando, nella primavera del 2018, ripercorrono il grande viaggio bianco orobico, la traversata scialpinistica delle Orobie da Varenna a Carona di Valtellina. Scelta non casuale: i due viaggiatori volevano scoprire cosa avevano visto Angelo Gherardi, Franco Maestrini e Giuliano Dellavite nel 1971, ancora Gherardi con il francese Jean Paul Zuanon nel ‘74, Maestrini con 8 giovani di Nembro da Ornica a Carona di Valtellina nell’’80 e, oltre trent’anni dopo, quando lo scialpinismo era diventato tutt’altra cosa, Francois Renard (2011 e 2013). Così nascono la traversata e il film Le traversiadi: cinque viaggi (più uno) con gli sci al limite delle Orobie di Maurizio Panseri e Alberto Valtellina, che potremo scoprire durante la rassegna Il Grande Sentiero venerdì a Nembro (Auditorium Modernissimo) e a San Pellegrino Terme sabato 14 dicembre (Cineteatro Oratorio).
Panseri non è nuovo a queste ripetizioni sulle linee del tempo: «Durante gli anni ‘90 feci alcune traversate scialpinistiche (Corsica, Alto Atlante del Marocco, crinale pirenaico collegando le cime più alte tra Pic d’Aneto e Posets) e alcune micro spedizioni che unite ad alcuni raid di più giorni nelle Alpi mi spinsero, ascoltando Maestrini, che per anni cercò di convincermi a provare la traversata delle Orobie, a provarci. Quando Maestrini mi fece vedere Passo dopo passo, il film della traversata dell’’80, mi convinsi che il tempo era giunto. Ne parlai a Marco (Cardullo) e nella primavera dell’anno scorso abbiamo vissuto le nostre traversiadi».
Non sfuggirà a chi vedrà il film il momento in cui, durante un traverso ad alta quota, Cardullo dice: «Mauri, cosa avevi detto, andiamo a fare una traversata, o le traversiadi?». Quello, spiega Panseri, è il momento: «Le Traversiadi nascono lì, a metà del quarto giorno di traversata. É un gioco di parole fra traversie e traversata: il secondo giorno avevo rotto un bastoncino e fui costretto a fare tutta la salita al Pizzo dei Tre Signori con uno solo; il terzo, prima si ruppe uno sci e poi il cellulare. Così, il quarto, mentre ci stavamo chiedendo cosa sarebbe successo, ecco quella parola, Traversiadi. E da quel giorno non ci furono più contrattempi». Fondamentale, in tutto questo, la presenza del regista Alberto Valtellina: «Lì nasce il titolo, ma la produzione del film era già in atto. L’accordo prevedeva che Maurizio avrebbe ripreso con una piccola e ottima camera leggera Sony, Marco si sarebbe occupato degli “appunti telefonici”, e io di girare con una macchina da presa professionale gli incontri con i testimoni dell’epoca. Oltre agli inserti storici, abbiamo scelto di usare il formato della proporzione classica del Cinemascope, ovvero 2,39:1, citazione di Fritz Lang che nel film di JeanLuc Godard Il disprezzo afferma che il Cinemascope era nato per riprendere i serpenti. Ecco, noi ci siamo detti che se andava bene per i serpenti, poteva andare benone anche per gli sci».
Un film che sa anche raccontare il forte legame tra la neve e le sue tracce nella fibra degli orobici moderni: «La nostra traversata è stata un pretesto per raccontare la storia dei luoghi e dello scialpinismo orobico, cercando di dare parola a chi ci ha preceduto. Abbiamo voluto testimoniare il forte legame con la neve e le montagne, sottolineando anche i paradossi: le valli bergamasche sono la patria di campioni dello scialpinismo, eventi storici come il Trofeo Parravicini, scuole, sezioni e sottosezioni Cai, eppure ci sono state solo sei traversate scialpinistiche in mezzo secolo - tre delle quali fatte dai francesi. Non è curioso?».
Anche la bella colonna sonora è un aspetto centrale del lavoro, come sottolinea Valtellina: «Collaboro con Alessandro Adelio Rossi da tempo. Lui e Fabrizio Colombi avevano già curato quella del nostro film Allenarsi!». Sonorità che connettono i registri proposti da Le Traversiadi, contribuendo a creare un flusso percepibile anche per chi non pratica. La musica unisce epoche diverse, con forti differenze tecnologiche, nel flusso continuo del selvatico orobico, come spiega Panseri: «Avevamo un cellulare, ma non Gps e tracce predisposte. L’orologio Gps lo utilizzavamo per registrare la traccia e per l’altimetro. Avevamo le storiche carte del Sugliani (Guida sciistica delle Alpi orobiche) senza le quali, così precise e dettagliate, in tre momenti particolari dubito che avremmo trovato il giusto passaggio tra le barre rocciose e i canaloni di valanga. Siamo andati alla vecchia maniera e nella parte più selvaggia e tecnicamente impegnativa comunque non hai segnale. La vera differenza tecnologica tra noi e Gherardi, Maestrini, Dellavite, Zuanon è il materiale: sci, zaini, pelli, scarponi, abbigliamento, fornelletto. Loro avevano 26 kg di equipaggiamento, noi meno di 20. La voce che narra, leggendo dal diario della traversata di Zuanon nel 1974, sottolinea che i luoghi restano selvaggi, così come il sentire e lo stupore, la fatica e la forte allergia alle motoslitte e agli impianti di risalita. Dagli anni ‘70 ad oggi, se escludiamo rifugi nuovi come il Benigni, tutto il resto è identico e la parte selvaggia è tale e quale: difficile, ostica, tutta da guadagnare, bellissima come ce l’aspettavamo».