LA RESILIENZA DEI LOMBARDI
Negli ultimi tempi l’opinione pubblica si è vista bersagliata da messaggi clamorosamente contraddittori. Annunciatosi il Coronavirus, si sono subito levati gli appelli faustiani o confindustriali di «Milano — e le altre città del caso, Bergamo compresa — non si ferma». Negozi aperti, autobus a prezzi ridotti, esortazioni a non disertare i ristoranti. La gente ha risposto fin troppo generosamente e i giornali e le tv si sono riempite di immagini di persone a passeggio, intente ai riti dell’happy hour o in coda nelle stazioni sciistiche, mentre, inascoltate Cassandre, medici e scienziati paventavano le conseguenze di tanta stolida protervia. Poi a quello slancio ha corrisposto la maldestra frenata del «tutti a casa» disposto dal decreto governativo e il Paese ha sinistramente scricchiolato nelle sue giunture istituzionali.
La crescita esponenziale del contagio consiglia gli arresti domiciliari o giù di lì, ma lo smart working non è per tutti e la gente deve pur campare. Per cui eccoci di nuovo alle prese con l’ennesima contraddizione. Che fare?
L’attivismo lombardo, di cui i bergamaschi sono campioni, rifiuta ogni resa. Ma c’è un modo positivo e uno negativo di non arrendersi. Paghiamo il prezzo alla sopravvivenza e al lavoro solo dove indispensabile. Ma per il resto, a casa. Mentre non fermiamoci nella scuola e nell’università e continuiamo, anzi incrementiamo le lezioni a distanza. Per i ragazzi una grande occasione di apprendimento. Chiamatela resilienza o darwinismo: vince chi sa adattarsi ai cambiamenti.