«Morto da solo che tristezza»
Il racconto di un lettore: dalla chiamata nella notte, al ricovero a Ponte. Tra le contraddizioni di un sistema in affanno
L’allarme nella notte, il numero regionale non operativo, poi il ricovero in un ospedale. Dove però non c’era possibilità di intubare suo padre, che è morto da solo.
«Quel che mi dispiace è che mio padre è morto per insufficienza respiratoria.. Da solo, a 86 anni…». Piange al telefono, il nostro lettore: l’unico cedimento emotivo dopo aver raccontato l’odissea di suo papà, che se n’è andato in un letto d’ospedale a Ponte San Pietro. «Sono passati 4 giorni e non so ancora se è morto di coronavirus. Nell’attesa, mi sono messo in autoisolamento volontario, ma solo per senso civico. Fossi un idiota come tanta gente che ho visto in giro, quante persone avrei potuto infettare se a mia volta positivo? Eppure nessuno m’ha detto nulla». Era anziano, suo padre, ma in buona salute: «Un professionista stimato, ha lavorato fino a un mese fa. Aveva ancora la patente. Venerdì alle 4 si sente male, è in casa con mia madre. Corro da loro. Chiamo il 1500, mi dicono di sentire il numero verde regionale. Peccato non fosse operativo. Quando finalmente riesco a esporre il problema, verso le 6, mi chiedono se il paziente sia mai stato a Codogno o se sia entrato in contatto con persone provenienti dalla zona rossa. Alla fine mi dicono di chiamare il 112 . Le operatrici intervenute, mostrandosi molto premurose, rilevano una saturazione del sangue particolarmente bassa. Così mio padre viene portato in codice rosso a Ponte San Pietro. Lì mi danno una mascherina,
❞ Aveva 86 anni ma stava bene, aveva lavorato fino a un mese prima. Aveva la patente. Magari intubandolo poteva essere salvato
ma non i guanti. Alle 10.30 mi dicono che è messo male. Viene ricoverato in un’area nuova dedicata ai coronavirus grazie alla trasformazione di due reparti di traumatologia e ortopedia».
Lo portano in reparto verso mezzogiorno, alle 13 inizia la ventilazione assistita. «Io ovviamente non posso entrare, comunico con i dottori sulle scale, mi dicono di tornare alle 19. Alle 13 del sabato i medici, molto gentili, mi riferiscono che la situazione è seria. Hanno diagnosticato una polmonite interstiziale bilaterale, sono al massimo della ventilazione, ma gli anestesisti sono indecisi se intubarlo. E qui mi fanno pensare: perché non intubarlo? Anche alla sua età potrebbe essere salvato, visto che è stato in salute fino adesso. Alle 19 risulta grave, ma stabile. Alle 23.30 mi chiamano a casa: “Suo padre è deceduto”. Mia madre, disperata, dice che preferisce ricordarlo da vivo. Io arrivo in ospedale alle 2. Per farmi vedere mio padre defunto, mi vestono come un palombaro. Mi domando a quel punto che senso avesse, nei giorni precedenti, che mi consegnassero i suoi vestiti sporchi in un sacchetto di plastica, in cambio di quelli puliti che portavo loro. Entro nella stanza: vedo mio padre, morto, accanto a un paziente vivo affetto da coronavirus. In attesa delle pompe funebri noto per due volte un extracomunitario entrare in reparto per consegnare scatoloni: aveva i guanti da cantiere, una mascherina, ma scarpe da ginnastica. Quando arrivano gli addetti delle pompe funebri, l’infermiera li invita a entrare. “No, lì non entra nessuno”, rispondono loro, “abbiamo già due famiglie contagiate perché i loro parenti sono entrati in reparto a prendere i morti. Mettete il cadavere in una sacca e portatecelo fuori”. Risposta dell’infermiera: “Non abbiamo sacche”. Ci hanno pensato le onoranze, più tardi, a recuperarne una. In camera mortuaria era tutto un andirivieni, evidentemente comincia a diventare un problema la gestione dei decessi». Resta, insieme al dolore, quel chiodo fisso: “Avrebbero potuto salvarlo, ma a 86 anni non era il caso di intubarlo. E così è morto soffocato, da solo. A Bergamo, non in Rwanda».
L’emergenza «Al 1500 mi dicono di sentire il numero verde regionale: peccato che non fosse operativo»