L’ultimo pensiero prima di volare via
Nella mente di quegli uomini accompagnati dalle penne nere fuori città
Gli uomini della Valseriana, nel giorno della festa del papà che è anche e doppiamente del nonno, si muovono verso un luogo lontano dalla loro valle per compiere un ultimo atto prima di rientrare a casa per sempre. Adesso sono ospitati in una lunga fila di camion dell’Esercito, guidati con delicatezza da ragazzi con la penna nera che riserveranno loro un viaggio non previsto, assurdo e pur tuttavia così carico di significati.
Un viaggio simbolico, conclusivo, prima di volare in alto. Un ulteriore permesso breve perché ci piace pensare che il corpo possa parlare ancora all’anima; bastano pochi attimi, forse un minuto, per poter conquistare la pace infinita.
Chi c’era sopra e su quale camion andasse al crematorio, il virus non ce l’ha detto. Forse non l’ha detto nemmeno ai parenti. Questo Covid intima solo dei no, guardare e non toccare. Nega la consolazione d’abbracciare i vivi, figurarsi i morti. Non dà il diritto d’avere un funerale come si deve. E a Bergamo fa anche di peggio: lascia i malati a soffrire da soli, li uccide in isolamento, li incenerisce lontano da qui. Cinis, pulvis et nihil. Nel buio dell’anonimato, nel silenzio d’un camion militare tendato. Una volta s’abbassavano le saracinesche e ci si levava rispettosi il cappello, se passava la bara: mercoledì sera non ce n’è stato bisogno, perché non ci sono più negozi da chiudere e davanti al defunto ci si mette prudenti la mascherina.
Neppure la guerra è mai stata così perfida. Riconosce la pietà dei corpi abbandonati nelle strade e persino i peggiori nemici, prima o poi, cessano il fuoco e restituiscono le salme. A volte c’è l’onore delle armi, quando a schierarsi in picchetto non sono soltanto le pompe di benzina deserte in Borgo Palazzo o le auto posteggiate, mentre scorre il corteo dei 65 feretri. La foto che ha fatto il giro del mondo, la colonna infame dei camion militari coi fari accesi tra i semafori che lampeggiano nel nulla, è tutto ciò che oggi la pandemia ci permette: un funerale di Stato senza Stato, né bandiere né fanfare, né presidenti né preti, niente lacrime e parenti. Senza applausi, pure: l’abitudine un po’ televisiva e tutta italiana di battere le mani, riservata alle pubbliche esequie, qui s’ammutolisce di fronte a un disastro che non è roba da Barbara D’Urso e che spezza, spazza i cuoricini di Facebook.
È il più feroce dei mesi nel più feroce degli anni e il gelo di quei camion in fila, acchiappato da un telefonino alla finestra, non ce l’hanno mai reso i James Nachtwey appostati fra i truck della Royal
Army in Irlanda del Nord, gli Steve McCurry al seguito degli americani in Afghanistan. Non sono funerali di trincea. A Sarajevo, l’ultimo addio lo si dava di nascosto: c’erano i cecchini sulle colline, a tirare su chi piangeva. A Bagdad concedono solo poche ore per seppellire i morti, perché lo vuole la religione e lo consiglia la prudenza: una volta, l’autobomba era un’ambulanza che seguiva la cerimonia. Nelle battaglie sporche della Libia, quando uno cade, le milizie s’incaricano d’avvertire la famiglia perché venga a prenderselo. Qui abbiamo messo i sacchi di sabbia alle finestre, anche se nessuno spara, anche se mercoledì sera non c’era chi tenesse nel mirino quel corteo funebre. Ma poche processioni hanno angosciato allo stesso modo. Dopo il terremoto, San Giuliano di Puglia schierò in una palestra le bare bianche dei bambini morti, aperte, coi pupazzetti di Winnie the Pooh appoggiati sulle mani dei piccoli, e i pianti straziati delle mamme. Ma poi s’andò al cimitero e almeno là si pregava, si parlava, si ricordava. La morte non sfilò di notte come una ladra e non nascose le vittime su camion in mimetica: loro laggiù in strada e in marcia verso gli inceneritori di Padova o di Modena, tutti noi
❞ Lontananza Il Covid nega la consolazione di abbracciare i vivi, figurarsi i morti
❞ Cerimonia Finita la paura, ci toccherà togliere i tricolori dai balconi e poggiarli sui nostri caduti
a guardarli dal remoto degli schermi e immersi nel nostro isolamento di spaventate emozioni, come il Violinista alla Finestra che dipinse Matisse. Racconta Gino Strada, con tutte le guerre che ha vissuto, che i funerali più cupi li ha visti in Sierra Leone nel pieno di ebola. E il prof belga che scoprì quel virus africano, Peter Piot, ricorda sempre come le epidemie portino con sé la spietatezza delle fosse comuni, la fretta delle disinfezioni a calce viva, l’ansia d’uscirne purchessia. Un giorno, finita la paura, ci toccherà dare una vera cerimonia a questi malati. Il tricolore, toglierlo dai balconi e poggiarlo su di loro. Come si fa per i caduti in guerra.