Corriere della Sera (Bergamo)

L’ultimo pensiero prima di volare via

Nella mente di quegli uomini accompagna­ti dalle penne nere fuori città

- Di Paolo Casarin

Gli uomini della Valseriana, nel giorno della festa del papà che è anche e doppiament­e del nonno, si muovono verso un luogo lontano dalla loro valle per compiere un ultimo atto prima di rientrare a casa per sempre. Adesso sono ospitati in una lunga fila di camion dell’Esercito, guidati con delicatezz­a da ragazzi con la penna nera che riserveran­no loro un viaggio non previsto, assurdo e pur tuttavia così carico di significat­i.

Un viaggio simbolico, conclusivo, prima di volare in alto. Un ulteriore permesso breve perché ci piace pensare che il corpo possa parlare ancora all’anima; bastano pochi attimi, forse un minuto, per poter conquistar­e la pace infinita.

Chi c’era sopra e su quale camion andasse al crematorio, il virus non ce l’ha detto. Forse non l’ha detto nemmeno ai parenti. Questo Covid intima solo dei no, guardare e non toccare. Nega la consolazio­ne d’abbracciar­e i vivi, figurarsi i morti. Non dà il diritto d’avere un funerale come si deve. E a Bergamo fa anche di peggio: lascia i malati a soffrire da soli, li uccide in isolamento, li incenerisc­e lontano da qui. Cinis, pulvis et nihil. Nel buio dell’anonimato, nel silenzio d’un camion militare tendato. Una volta s’abbassavan­o le saracinesc­he e ci si levava rispettosi il cappello, se passava la bara: mercoledì sera non ce n’è stato bisogno, perché non ci sono più negozi da chiudere e davanti al defunto ci si mette prudenti la mascherina.

Neppure la guerra è mai stata così perfida. Riconosce la pietà dei corpi abbandonat­i nelle strade e persino i peggiori nemici, prima o poi, cessano il fuoco e restituisc­ono le salme. A volte c’è l’onore delle armi, quando a schierarsi in picchetto non sono soltanto le pompe di benzina deserte in Borgo Palazzo o le auto posteggiat­e, mentre scorre il corteo dei 65 feretri. La foto che ha fatto il giro del mondo, la colonna infame dei camion militari coi fari accesi tra i semafori che lampeggian­o nel nulla, è tutto ciò che oggi la pandemia ci permette: un funerale di Stato senza Stato, né bandiere né fanfare, né presidenti né preti, niente lacrime e parenti. Senza applausi, pure: l’abitudine un po’ televisiva e tutta italiana di battere le mani, riservata alle pubbliche esequie, qui s’ammutolisc­e di fronte a un disastro che non è roba da Barbara D’Urso e che spezza, spazza i cuoricini di Facebook.

È il più feroce dei mesi nel più feroce degli anni e il gelo di quei camion in fila, acchiappat­o da un telefonino alla finestra, non ce l’hanno mai reso i James Nachtwey appostati fra i truck della Royal

Army in Irlanda del Nord, gli Steve McCurry al seguito degli americani in Afghanista­n. Non sono funerali di trincea. A Sarajevo, l’ultimo addio lo si dava di nascosto: c’erano i cecchini sulle colline, a tirare su chi piangeva. A Bagdad concedono solo poche ore per seppellire i morti, perché lo vuole la religione e lo consiglia la prudenza: una volta, l’autobomba era un’ambulanza che seguiva la cerimonia. Nelle battaglie sporche della Libia, quando uno cade, le milizie s’incaricano d’avvertire la famiglia perché venga a prendersel­o. Qui abbiamo messo i sacchi di sabbia alle finestre, anche se nessuno spara, anche se mercoledì sera non c’era chi tenesse nel mirino quel corteo funebre. Ma poche procession­i hanno angosciato allo stesso modo. Dopo il terremoto, San Giuliano di Puglia schierò in una palestra le bare bianche dei bambini morti, aperte, coi pupazzetti di Winnie the Pooh appoggiati sulle mani dei piccoli, e i pianti straziati delle mamme. Ma poi s’andò al cimitero e almeno là si pregava, si parlava, si ricordava. La morte non sfilò di notte come una ladra e non nascose le vittime su camion in mimetica: loro laggiù in strada e in marcia verso gli incenerito­ri di Padova o di Modena, tutti noi

❞ Lontananza Il Covid nega la consolazio­ne di abbracciar­e i vivi, figurarsi i morti

❞ Cerimonia Finita la paura, ci toccherà togliere i tricolori dai balconi e poggiarli sui nostri caduti

a guardarli dal remoto degli schermi e immersi nel nostro isolamento di spaventate emozioni, come il Violinista alla Finestra che dipinse Matisse. Racconta Gino Strada, con tutte le guerre che ha vissuto, che i funerali più cupi li ha visti in Sierra Leone nel pieno di ebola. E il prof belga che scoprì quel virus africano, Peter Piot, ricorda sempre come le epidemie portino con sé la spietatezz­a delle fosse comuni, la fretta delle disinfezio­ni a calce viva, l’ansia d’uscirne purchessia. Un giorno, finita la paura, ci toccherà dare una vera cerimonia a questi malati. Il tricolore, toglierlo dai balconi e poggiarlo su di loro. Come si fa per i caduti in guerra.

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I camion militari con le salme due sere fa in via Borgo Palazzo
Strazio I camion militari con le salme due sere fa in via Borgo Palazzo

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