Corriere della Sera (Bergamo)

Addio a don Fausto Era l’angelo degli ultimi

Si divideva tra via Gleno, la stazione e il Patronato Il vescovo: un’icona della carità evangelica Il sindaco: andrà data continuità al suo lavoro La proposta della direttrice Mazzotta, lacrime tra i detenuti e alle Autolinee Il collaborat­ore: mai un gior

- Di Maddalena Berbenni

La notizia l’ha raccolta Oli, all’una dell’altra notte, una telefonata dall’ospedale di Como per chiudere un capitolo della storia di Bergamo. È morto don Fausto Resmini e «chiudere» non era certo il suo verbo preferito. Don Fausto apriva, abbracciav­a, includeva, rispondeva, «era l’icona vivente della carità evangelica», lo ricorda il vescovo Francesco Beschi. Erano insieme, il 28 febbraio, in stazione. Il giorno dopo, sono arrivati i sintomi del coronaviru­s anche per l’altro volto del Patronato San Vincenzo, don Davide Rota, lui dimesso ma ancora molto affaticato.

Don Fausto, 67 anni, di Lurano, dove ha sempre voluto mantenere la residenza e dove ha espresso il desiderio di essere tumulato, si era aggravato una settimana fa, quando era stato trasferito dalla Gavazzeni. I primi giorni li aveva fatti nella sua stanza a Sorisole. Nell’ultimo Sms chiedeva di tornarci, con l’ossigeno, certo, ma gli premevano i ragazzi e i detenuti. «La sua stanza? La più brutta. Lui era così: niente per sé e tutto per gli altri», dice Oli, che sta per Oliveto Salvatore, suo inseparabi­le collaborat­ore con lo Zucchi, Luigi Zucchinali. Un trio, con don Fausto, dell’epoca in cui la comunità Don Milani era ancora un collegio e lui assistente dopo le Magistrali a San Paolo d’Argon, dove era stato mandato dai suoi genitori, che avevano un bar. Restano tre sorelle, un fratello e tanti nipoti. Folgorato dalla figura di don Bepo Vavassori, aveva deciso di diventare sacerdote non subito, in principio si era iscritto a Legge. «Ricordo — prosegue Oli — quando partivamo con la 127 verde che mi faceva guidare senza patente». La meta, già allora, era la stazione. «Prima è stata la comunità per minori, poi abbiamo iniziato con i pasti in strada, poi il camper, dal ‘92 era diventato cappellano del carcere e di recente, alla Casa del Giovane, si occupava anche dei ragazzini della Primavera dell’Atalanta. Io non ero tanto d’accordo, ma lui diceva che hanno bisogno perché sono lontano dai genitori». Instancabi­le: «C’era 365 giorni all’anno, l’unica sua vacanza è stata in Calabria nel ‘79, ce lo avevo portato io. Aveva la passione dei francoboll­i, ma accettava solo quelli riciclati, spendeva gli unici soldi per i libri di filosofia. E al pochiamo sto della cintura usava una stringa per le scarpe. Questo era don Fausto». La notizia è arrivata anche in stazione: «Qualcuno piange, altri mi chiedono se è vero».

«Era preoccupat­o di lasciare tutte le cose a posto: il carcere, la stazione, i rapporti con le istituzion­i, non per ultima la cascina di don Roberto Pennati — spiega, con tanta fatica, Zucchinali —. Gli sarebbe piaciuto farci qualcosa di supporto al carcere». E proprio la direttrice Teresa Mazzotta si farà promotrice dell’idea di intitolare la casa circondari­ale a don Fausto: «Non riusciamo a parlarne al passato, era un punto di riferiment­o per tutti», dice. Alcuni detenuti lo hanno ricordato. Attilio, Victor e Fulvio, che descrive quando dallo spioncino della cella d’isolamento aveva visto per la prima volta i suoi occhiali: «Se ti serve qualcosa, una radiolina, un libro o se hai anche solo voglia di parlare con me, chiedi di me: mi don Fausto», gli aveva detto. «Sono passati tanti anni da allora — ricorda Fulvio —. Abbiamo spesso incrociato i nostri sguardi nei corridoi delle sezioni, a teatro e abbiamo sempre scambiato anche solo due parole. Poi tutto mi sembrava più bello perché in carcere basta davvero poco per sentirsi considerat­i».

«C’è incredulit­à e dolore — risponde da Sorisole don Dario Acquaroli, da due anni secondo sacerdote alla Don Milani —. Oggi in comunità regna il silenzio. Ognuno a modo suo, chi da cristiano, chi da musulmano sta affidando don Fausto a Dio. Quello che gli ho voluto dire io è che tutto continuerà, lo porteremo avanti in ogni modo». È il pensiero espresso anche dal sindaco pd Giorgio Gori: «Ora lo sforzo sarà dare continuità al suo lavoro». Proprio col Comune don Fausto stava lavorando a un progetto per i minori stranieri non accompagna­ti, l’ultima piaga a cui stava cercando di dare una cura. Tossicodip­endenti, minori usciti dal carcere, profughi. «Lui stava bene con gli ultimi, con chi aveva bisogno», piange Elena Romano, che aveva 16 anni quando ha iniziato a fare l’operatrice a Sorisole e oggi ne ha 36. «Arrivavano le chiamate dalla Questura e non avevamo posto, ma sapevamo già quale sarebbe stata la sua risposta: fallo venire, lo spazio si trova».

Fabio Defendi, coordinato­re del Servizio Esodo, faceva l’architetto. Ha cambiato vita dopo il servizio civile a Sorisole: «Una sera d’inverno di tanti anni fa pioveva. Io ero a Sorisole, don Fausto in stazione. Mi chiama e mi dice: c’è qui una ragazza tutta bagnata, il dormitorio femminile ha già chiuso, prepara una stanza e qualcosa di caldo. Ed è tornato con quella ragazza infreddoli­ta, tossicodip­endente, con anni di vita in strada e diverse carcerazio­ni alle spalle. Aveva la capacità di prendere decisioni e una visione illuminata, anche innovativa. Diceva: sulla strada dobbiamo esserci, perché lì c’è l’uomo».

Defendi (Esodo)

«Quella notte di pioggia e la ragazza che portò a Sorisole: don Fausto mi ha cambiato la vita»

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Il gesto affettuoso di un senzatetto nei confronti di don Resmini
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Don Fausto Resmini aveva 67 anni ed era ricoverato con il coronaviru­s da 2 settimane. A sinistra, la visita del vescovo alla mensa in stazione il 28 febbraio
L'ultima sera Don Fausto Resmini aveva 67 anni ed era ricoverato con il coronaviru­s da 2 settimane. A sinistra, la visita del vescovo alla mensa in stazione il 28 febbraio

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