Quel vuoto che ci farà cambiare vita
Non vediamo l’ora di ricominciare. Ma in quel modo di vivere c’era qualcosa di storto
Bergamo oggi è una città senza mura. La nera signora si è presentata nelle vesti di un nemico invisibile. Bisognerà dare un senso a questo sacrificio. Non vediamo l’ora di ricominciare, ma sarebbe importante anche ricordare che forse in quel modo di vivere qualcosa era storto.
Un filosofo dell’antichità, ingiustamente bistrattato, diceva che noi umani possiamo metterci al riparo da ogni cosa, ma davanti alla morte tutti viviamo in una città senza mura. Ecco, Bergamo oggi è una città senza mura. La nera signora si è presentata nelle vesti di un nemico invisibile, piccolo come un centimetro diviso centomila volte, un essere primordiale che non si sa neanche se considerare «vivo» e che da tre miliardi di anni infetta batteri, piante e animali usandoli come veicoli di trasmissione. Un quinto del nostro Dna è di origine virale, il che significa che siamo sopravvissuti a molte altre pandemie nei 200 millenni della nostra storia di specie. Questa però è nuova di zecca e le mura del nostro sistema immunitario non hanno resistito all’assedio.
Per muovere al contrattacco, dovremo aspettare i primi farmaci in grado di curare i sintomi gravi e poi il vaccino. Allora adesso tutti invochiamo a gran voce, ancorché tardivamente, quella ricerca scientifica che da quarant’anni in Italia non finanziamo quasi più. Nel frattempo, non possiamo attendere che si ammalino in così tanti da sviluppare l’immunità di comunità (non «di gregge», perché non siamo pecore). Noi infatti, a differenza degli altri animali, abbiamo inventato gli ospedali, la pietà e il giuramento di Ippocrate. Certe stupidaggini sul gregge le dicono soltanto alcuni premier britannici molto narcisisti e in vena di scherzare sulla pelle delle persone, salvo poi sfacciatamente pentirsene. Quindi, a meno di non voler considerare la terza e la quarta età un lusso su cui ricredersi, bisogna stare a casa, proteggere i più vulnerabili, fare più tamponi e sorveglianza attiva per monitorare l’andamento del contagio. Soprattutto a Bergamo. Basta fare due conti.
Non c’è ormai famiglia bergamasca che non abbia avuto un amico o un conoscente colpito. La statistica parla di 1.617 decessi al 27 marzo: tantissimi, troppi. Perché? Non ci sono evidenze che il coronavirus lombardo sia più letale di quello veneto, tedesco e cinese. D’accordo, siamo una delle città più anziane d’Italia, ma non può essere l’unica causa di così tanti lutti. Tra gli epidemiologi c’è discussione (cinica, ma necessaria) su come distinguere tre categorie: chi è morto a causa soltanto del virus; chi aveva altre patologie e il virus le ha sostanzialmente aggravate; chi aveva patologie già serie e il virus non ha fatto la differenza. Per Bergamo conta poco, perché anche escludendo dal computo la terza categoria (come fanno i tedeschi) il numero delle vittime da noi è sottostimato poiché non include chi si è spento a casa, o in casa di riposo, a seguito di una polmonite senza nome.
Allora teniamo buono il numero di 1.617. Se questo virus ha una mortalità media del 3,5% (stima alta, per stare prudenti) e non
abbiamo motivo di pensare che a Bergamo sia diverso, allora non resta che una conclusione: i contagiati, in casa o fuori per lavoro, sono molti più degli 8.060 ufficiali (sempre al 27 marzo). A spanne larghe, dovrebbero essere più di 30.000 solo nella bergamasca, ma è una stima prudente. Da giorni lo dicono medici e ricercatori, adesso lo ammettono anche le autorità. Quindi il virus era in giro forse da prima di quanto pensiamo e poi per varie ragioni, che dovremo indagare senza affrettarci in ipotesi non suffragate dai fatti, si è diffuso tantissimo dalle nostre parti. Anche se i numeri sono incerti, il messaggio resta chiaro: se ci sono così tanti contagiati non registrati, una parte dei quali non sintomatici, bisogna a maggior ragione mantenere le misure di restrizione dei movimenti e dei contatti. In concreto: se al supermercato o sul Sentierone ci ritrovassimo in cento, il calcolo delle probabilità (30.000 è circa il 3% della popolazione della provincia) ci suggerisce che tre persone su quelle cento sarebbero positive.
Questo nemico oltre che invisibile è subdolo, perché rende ciascuno di noi un potenziale pericolo (anche asintomatico) per l’altro. Prende la nostra socialità e ce la ritorce contro. Noi però abbiamo un vantaggio su di lui: si chiama cervello. Che la nostra città sia una comunità coesa e intelligente, lo si capisce da un dettaglio. Senti sirene che dalla mattina alla sera squarciano un silenzio irreale, vedi camionette militari che fanno i controlli agli angoli delle strade, ti arriva l’eco di un altoparlante che invita ad uscire solo per motivi inderogabili pena sanzioni severe, e anche se un brivido ti corre per la schiena lo sai, lo sappiamo tutti, che non è in atto un colpo di Stato. Sono regole di senso civico che ci siamo dati per proteggerci l’un l’altro e, pur con qualche mugugno in bergamasco, le rispettiamo.
Quelli di prima però non sono numeri. Sono genitori e nonni che boccheggiavano sperando di trovare il respiro successivo. Da fine febbraio, nella Bergamasca, la nera signora che penetra le mura sta lavorando a ritmi cinque o sei volte superiori al normale. Muoiono donne e uomini, pensionati, impiegati, bibliotecari, medici condotti, muratori, alpini, volontari, postini, infermieri. Bisognerà dare un senso a questo sacrificio. Un senso potrebbe essere che, quando ne usciremo, tutto torni come prima e allo stesso tempo nulla torni come prima. Paradosso?
Guardate queste foto dell’autogrill deserto, dell’aeroporto fermo, del grande viale desolato. Spiace. Non vediamo l’ora di ricominciare, ma sarebbe importante anche ricordare che forse in quel modo di vivere qualcosa era storto. Ci eravamo abituati a prendere inquinantissimi aerei da Orio al Serio per andare in città che a malapena avevamo visto sull’atlante, così per fare un weekend diverso, tanto costava poco. I molti bergamaschi che frequentano la A4 sanno che da anni le prime due corsie sono intasate di camion all’inverosimile, con targhe da tutta Europa. Ottimo, perché significa che l’economia gira, che si produce. Pessimo, perché in Pianura padana non si respirava più e per arrivare a Milano si faceva prima in calesse. Quando tutto ripartirà, chiediamoci se aveva davvero senso continuare a misurare la nostra «crescita» soltanto in termini di corsie autostradali e di numero di decolli.
Chissà se anche questa volta saremo smemorati. I mandorli e i ciliegi splendidamente in fiore sui nostri colli ci narrano di quanto la natura sia indifferente alle umane sofferenze. Continuerebbero a dare i loro frutti anche se noi scomparissimo domani mattina. Lo aveva capito lo stesso filosofo di cui sopra, Epicuro, che l’universo è sordo ai nostri richiami. Dunque, siamo liberi e responsabili, artefici del nostro destino, senza colpe da imputare a un dio cattivo e a nature matrigne. In questa primavera che sembra un inverno, dedichiamo allora un po’ del tempo ritrovato all’unica attività che ci permetterà di evitare un’altra sciagura del genere: studiare, continuare la ricerca.
Certo, non è facile. Mio padre diceva sempre che il massimo della felicità è contemplare un soffitto bianco. L’iperbole voleva dire (credo) che se hai una vita interiore ricca e piena di pensieri, sogni e progetti, non hai bisogno di tante distrazioni. Per molti bergamaschi chiusi in casa, adesso in effetti il soffitto bianco potrebbe essere una risorsa aggiuntiva. Sempre meglio della Rete, mondo alternativo sul quale ci affacciamo ansimanti come per assaporare aria nuova e sentirci meno soli. L’incanto solidaristico è durato qualche settimana. Ora l’ambiente digitale è già ammorbato da tastieristi che la sanno lunga, paventano complotti segreti internazionali e insinuano, senza prova alcuna ma profluvi di like, chissà quali cospirazioni biotech. Come sarebbe bello prenderli per la collottola e portarli a fare lavori socialmente utili al Papa Giovanni XXIII.
Per muovere al contrattacco, dovremo aspettare i primi farmaci e poi il vaccino. Allora adesso tutti invochiamo a gran voce, tardivamente, quella ricerca scientifica che da quarant’anni in Italia non finanziamo quasi più Quando tutto ripartirà, chiediamoci se aveva senso misurare la nostra crescita in termini di corsie dell’A4 e di numero di decolli