Le comunità per disabili sono state lasciate sole
Da Agorà (Celadina) a Namastè (Cenate Sopra) Gli educatori si sono dovuti reinventare, anche per misurare la saturazione agli utenti
Raffaella Beloli non ha visto i due bimbi e suo marito per 12 giorni. Temeva di contagiarli o, al contrario, di infettare gli ospiti della struttura dove lavora: la Comunità socio sanitaria (Css, ndr) Agorà, del consorzio La Cascina di Villa d’Almè, che a Celadina accoglie dieci disabili di età compresa fra i 18 e i 65 anni. Così, volontariamente, si è trasferita in un appartamento messo a disposizione da una cooperativa amica. «È stata dura ma ho fatto la scelta giusta», commenta l’educatrice che, come altri colleghi, ha trascorso le ultime settimane in trincea.
Con l’arrivo del coronavirus, infatti, molte di queste realtà si sono trovate a riorganizzare spazi e attività. A gestire paure, malattie, assenza di personale e dispositivi di protezione, al pari di ospedali e case di riposo. «Dai primi di marzo — spiega la presidente del consorzio Francesca Facchinetti — abbiamo interrotto tutte le attività esterne. Sono stati vietati gli ingressi ai volontari e ai parenti». Se la «chiusura delle porte» non ha creato troppi problemi, «più complicato è stato gestire i pazienti positivi al Covid-19 e gli ammalati della casa, fossero essi operatori (5-6 su un totale di 8, ndr) o ospiti». Un utente di 62 anni, già affetto da patologie cardiologiche, è deceduto all’ospedale. Un secondo caso, invece, si è risolto positivamente. In totale nelle strutture del consorzio (quattro Css e tre appartamenti protetti, tutti fra Bergamo e provincia) 4 ospiti sono risultati positivi al tampone. Una ventina, invece, i sintomatici senza riscontri.
«Ancora prima di avere i risultati del tampone — prosegue la presidente — abbiamo riorganizzato le giornate nelle stanze. Per qualcuno, avendo patologie importanti, è difficile rispettare la reclusione così come la richiesta di indossare la mascherina». Altro capitolo, quest’ultimo, complicato. Trovare i dispositivi di sicurezza «è una fatica immensa, non si riescono a ordinare, non arrivano. E non parliamo dei costi — aggiunge —. Le normative, a differenza di realtà simili come le Rsa, non prevedono che ci vengano distribuite mascherine. Come Css siamo accreditati in quanto servizio socio sanitario, ma siamo sempre l’ultima ruota del carro. Le sanificazioni le abbiamo fatte di tasca nostra. Nelle normative sui tamponi, i nostri lavoratori non sono citati». Per questo, «come consorzio e in collaborazione con la cooperativa Lavorare Insieme, stiamo valutando di fare prelievi ematici a tutti, operatori e utenti», anticipa Facchinetti.
Altrove la situazione non è diversa. Stesse difficoltà, simili le strategie messe in atto. A Cenate Sopra la cooperativa Namasté gestisce due strutture per persone affette da disabilità: la Css Impronta e gli appartamenti protetti Cenate 2. Anche qui c’è stato un caso di un utente positivo al Covid-19. «Fortunatamente è guarito ed è già rientrato dall’ospedale — spiega la coordinatrice Roberta Savoldelli —. Altri hanno avuto la febbre. Ai primi lievi sintomi, sono stati isolati. La speranza è che non aumentino, altrimenti avremo un problema di spazi».
In questo periodo «gli educatori si sono dovuti reinventare». Si sono trovati a svolgere compiti più sanitari, come la misurazione della saturazione (che indica la percentuale di ossigeno nel sangue), ma anche l’organizzazione dell’attività in cucina e le sedute di ginnastica. «Molti degli abitanti di Cenate 2, che sono per lo più giovani sui 25 anni, settimanalmente rientravano in famiglia — dice —. C’è tanta nostalgia di casa ma stanno reggendo. Dalle grandi cose a quelle minime, tutto ora richiede un’organizzazione complessa». Un esempio fra tanti? La spesa al supermercato, prima era un momento per fare gruppo, «ora conclude -, fra l’autocertificazione, le code e il carrello troppo piccolo per contenere tutto, è diventata un’impresa».