Corriere della Sera (Bergamo)

LA VITA APPESA A UN TAMPONE

- Di Riccardo Nisoli

Tra le tante narrazioni poco aderenti alla realtà che ci sono state propinate in quest’emergenza — dalla «poco più che una banale influenza» al virus «letale solo in persone anziane e già malmesse per altre patologie» —, toccherà annoverare pure l’annuncio che i test sierologic­i saranno lo screening di massa indispensa­bile per affrontare con serenità e sicurezza l’agognata Fase 2. Non è così, purtroppo.

Saranno un tassello importante, ma non determinan­te, almeno in tempi brevi. Questi prelievi di sangue, da analizzare in ospedale, serviranno a scopo statistico per dire quanti sono immuni e quanti a rischio. Diranno se una persona è entrata in contatto con il Covid-19 e ha sviluppato gli anticorpi. Ma ove gli anticorpi risultasse­ro presenti, servirà comunque un tampone per stabilire con assoluta certezza se la persona sottoposta al test sia contagiosa oppure no. Anche perché la pur breve letteratur­a di questo virus sta evidenzian­do casi di positività al tampone di controllo anche dopo 40 o 50 giorni. Più si va avanti, insomma, e più emerge chiarament­e che la vera differenza nella lotta al Covid, oltre al distanziam­ento sociale, la fanno i tamponi. Quelli poco usati in Lombardia (dove la sanità di territorio ha mostrato tutte le sue carenze, contribuen­do a stressare gli ospedali fino a farli collassare) e molto più utilizzati invece in Veneto, regione a onor del vero meno colpita, dove sono serviti a stanare in percentual­i rilevanti i pazienti asintomati­ci, le armate più pericolose e subdole del coronaviru­s.

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