LA VITA APPESA A UN TAMPONE
Tra le tante narrazioni poco aderenti alla realtà che ci sono state propinate in quest’emergenza — dalla «poco più che una banale influenza» al virus «letale solo in persone anziane e già malmesse per altre patologie» —, toccherà annoverare pure l’annuncio che i test sierologici saranno lo screening di massa indispensabile per affrontare con serenità e sicurezza l’agognata Fase 2. Non è così, purtroppo.
Saranno un tassello importante, ma non determinante, almeno in tempi brevi. Questi prelievi di sangue, da analizzare in ospedale, serviranno a scopo statistico per dire quanti sono immuni e quanti a rischio. Diranno se una persona è entrata in contatto con il Covid-19 e ha sviluppato gli anticorpi. Ma ove gli anticorpi risultassero presenti, servirà comunque un tampone per stabilire con assoluta certezza se la persona sottoposta al test sia contagiosa oppure no. Anche perché la pur breve letteratura di questo virus sta evidenziando casi di positività al tampone di controllo anche dopo 40 o 50 giorni. Più si va avanti, insomma, e più emerge chiaramente che la vera differenza nella lotta al Covid, oltre al distanziamento sociale, la fanno i tamponi. Quelli poco usati in Lombardia (dove la sanità di territorio ha mostrato tutte le sue carenze, contribuendo a stressare gli ospedali fino a farli collassare) e molto più utilizzati invece in Veneto, regione a onor del vero meno colpita, dove sono serviti a stanare in percentuali rilevanti i pazienti asintomatici, le armate più pericolose e subdole del coronavirus.