Corriere della Sera (Bergamo)

Il chirurgo della lettera più virale: «Ecco perché l’ho scritta»

- di Maddalena Berbenni

Daniele Macchini, 32 anni, è il chirurgo della lettera che ha aperto gli occhi sul Covid-19. L’aveva scritta il 7 marzo, quando l’epidemia iniziava a mietere vittime. «Avevo letto il post di un ragazzo che si lamentava perché non poteva andare in palestra, mentre in clinica la situazione era drammatica», racconta. Macchini lavora da due anni all’Humanitas Gavazzeni (qui sei operatori

ritratti dopo il turno) e si è a sua volta ammalato. «Dopo quel post, mi hanno scritto da tutto il mondo. È stato difficile curare colleghi».

«Scusi, posso richiamarl­a? Mi stanno facendo il tampone». Daniele Macchini, 32 anni, chirurgo, brianzolo. Lavora all’Humanitas Gavazzeni dal 2018. Il 7 marzo pubblica su Facebook un messaggio drammatico, forse la prima testimonia­nza a chiarire, a un Paese ancora in confusione, che il Covid-19 non è un’influenza. I siti lo riprendono.

Sa che ha fatto milioni di contatti? Cosa l’ha spinta?

«Erano giorni pesanti. Mi era balzato l’occhio sul post di un ragazzo che si lamentava perché non poteva andare in palestra. Non ci ho più visto». Cosa stava accadendo? «Ero appena stato spostato a dare manforte al Pronto soccorso. Vidi il dramma, un’unica schermata di codici rossi e gialli. I pazienti arrivavano tutti gravi e precipitav­ano da un momento all’altro. Abbiamo intubato persone con cui avevo parlato fino a 5 minuti prima. Una sera, prima di smontare, avevo fatto un salto in reparto e mi era venuta incontro un’infermiera con le lacrime agli occhi. Diceva che urlavano tutti perché non riuscivano a respirare, che i monitor suonavano in continuazi­one e che aveva paura di non farcela».

Quando ha realizzato la portata dell’epidemia?

«Durate la prima guardia notturna mi sono reso conto di quanto l’ospedale fosse occupato da quei malati. La turnista

❞ Dopo quel post chiamate da tutto il mondo, tante di sostegno, ma anche lamentele. Mi hanno proposto di curare con l’aglio

era una collega infettivol­oga. Le avevo detto di avvisarmi in caso di bisogno. Quando mi chiamò, aveva una voce diversa, mai sentita. Proprio come orologi, i pazienti si aggravavan­o all’improvviso. Stava gestendo 10 ricoveri. Ci fu un giovane che trasferimm­o a Monza perché la Terapia intensiva era satura. Era la prima volta che mi affacciavo in quel reparto. Mi colpì l’affollamen­to. C’era il doppio delle persone. Capii che la cosa stava andando oltre ciò che ci si aspettava. Il giorno dopo avvisai amici e parenti di fare attenzione».

Ci sono casi che l’hanno segnata di più?

«È capitato di ricoverare marito e moglie insieme e che ti chiedesser­o di stare nella stessa stanza, ma con uno sguardo il collega ti faceva capire che non era possibile, perché il coniuge era già deceduto. Ci siamo anche occupati di colleghi che fino al giorno prima sentivi per qualche consulenza. Li ritrovavi lì come gli altri. Ricordo il momento in cui mi dissero: sta arrivando il dottor Nosari, è grave».

Cos’è successo dopo quella lettera in Facebook?

«Ho dovuto fare deviare le chiamate sul centralino, dove temo non mi abbiamo voluto bene». Scherza. «Vedevi a ogni chiamata un prefisso diverso. Sono stato poco cortese solo con un’agenzia viaggi russa: si lamentava perché nessuno prenotava più. Mi hanno scritto da Bolivia, Giappone, Paraguay, da mezzo mondo. Conservo uno screenshot con mille richieste di amicizia».

Non saranno state solo lamentele.

«Molti offrivano aiuto: mascherine, ventilator­i. Altri rimedi, anche simpatici, come l’aglio. Mi è rimasta impressa una madre di Bergamo. Mi faceva presente che con queste misure aveva perso il lavoro, ma era convinta che fossero necessarie e si augurava che tutti le rispettass­ero».

Nel post ha scritto che, secondo lei, la zona rossa ad Alzano era necessaria.

«In quei giorni i pazienti arrivavano sempre da quei due, tre comuni. Ora credo sia stato meglio intervenir­e su tutta la Lombardia».

Un mese fa si è ammalato. «Non ho mai avuto febbre, ma la polmonite c’era. Mi sono curato a casa e ora sono in attesa del tampone».

E i suoi pazienti della Chirurgia?

«Hanno dimostrato una gran pazienza. Più passano i giorni e più cresce la preoccupaz­ione di sapere come stanno. Mi piacerebbe fare sapere loro che li pensiamo tanto».

Mi ha colpito occuparmi di miei colleghi. Ero di turno quando è arrivato il dottor Nosari Daniele Macchini chirurgo

Vedere i pazienti lottare dà la forza anche a noi. Poi quando ti fermi arriva l’emotività Samantha Nadalin anestesist­a

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