Un’antidiva dietro le quinte Nata nella Milano bene primo 900 Titina Rota si emancipò lavorando come costumista di teatro e cinema Dalla Scala al Festival di Venezia nel segno raffinato dell’Art Déco
Famiglia di colti musicisti, Milano bene, primo ’900: nel salotto di casa la ragazza vede passare ogni giorno star come Toti Dal Monte, Alfredo Casella, Igor Stravinskij. Negli anni 30 Enrico Prampolini affermerà che è lei la miglior costumista italiana, Gabriele d’Annunzio sarà un ammiratore dei suoi disegni incantati. Eppure Titina Rota (Milano 1899 – Anacapri 1978) è caduta nell’oblio che riguarda molte donne artiste: chapeau a Vittoria Crespi Morbio, che l’ha tratta dall’ombra grazie a due bei volumi illustrati.
Titina, cugina prima del compositore Nino Rota, il preferito da Fellini, nasce destinata al violino. Ma un grave incidente, che la costringe immobile a lungo e forse ne indurisce il carattere, sollecita la sua inclinazione alla grafimoda ca. A vent’anni è già indipendente, fa la vetrinista, disegna figurini: nella buona società meneghina dell’epoca una pietra dello scandalo, una che cerca lavoro invece di cercar marito. A indirizzarla verso il teatro sono due amici di casa, lo scenografo Giovanni Grandi e il regista Guido Salvini, entrambi collaboratori della Scala: quest’ultimo nel 1931 le affida i costumi per una versione della «Locandiera» al Teatro Odeon, protagonista la celebre Tatiana Pavlova. È il debutto ufficiale ed è anche il successo, a cui seguono lavori per la Scala stessa e per la Fenice, per l’Opera di Roma, per il Maggio Fiorentino.
Titina porta sui palchi una ventata d’aria fresca: non progetta gli abiti di scena in modo generico, non li affitta in sartoria, ma li crea e taglia ad hoc sull’artista che li deve indossare. Strizza l’occhio alla contemporanea, spalle importanti e vita sottile. Studia l’abbigliamento dei periodi in cui le pièce sono ambientate e ne trae ispirazione. Ma il tocco è tutto suo: squisitamente Art Déco, decorativo, fiabesco, elegante, a tratti umoristico. E poi usa come base tele povere, stoffe modeste, ma le rende preziose con pennellate dorate e nuvole di colore. Un esempio? Nel 1934 la chiama Max Reinhardt per un allestimento all’aperto del «Mercante di Venezia» nella città lagunare, musiche di Victor De Sabata, Memo Benassi che interpreta Shylock: un trionfo.
In parallelo lavora anche per il cinema, è l’epoca dei telefoni bianchi, dei filmoni storici, di Gallone e Camerini: veste divi come Alida Valli, Clara Calamai, Valentina Cortese, Amedeo Nazzari. Poi accade qualcosa, forse incomprensioni o delusioni. Fatto sta che nel ’48 segue il suo ultimo spettacolo al Festival di Venezia: si allontana definitivamente dal mondo teatrale e si avvicina a quello del giornalismo, diventando direttrice artistica del femminile «Grazia» e collaboratrice dell’«Illustrazione Italiana». Ma avverte sempre più il richiamo dell’arte pura, di una pittura fine a se stessa, creazione libera e autonoma. Sono i primi anni 50 e Titina si trasferisce stabilmente ad Anacapri, dove muore nel 1978: ne ha ritratto paesaggio e natura in un distillato di malinconia, solitudine, straniamento.
Amata da d’Annunzio e Prampolini, approdò al giornalismo e infine alla pittura pura