CHI DECIDE NON SA ASCOLTARE
Possiamo raccontarci che questi mesi abbiano insegnato qualcosa, ma non è così. La vicenda dei medici bergamaschi che si alzano e se ne vanno dal tavolo di lavoro Covid, lasciando seduta l’Ats, conferma un problema che ha imposto alla vicenda dell’epidemia — specie a Bergamo — svolte drammatiche: chi decide non ascolta. Nel caso più recente, la direzione dell’Ats non ascolta la richiesta delle sigle sindacali e dell’Ordine dei medici di mantenere al suo posto Roberto Moretti, dirigente delle Cure primarie che aveva retto la baracca nei momenti più gravi. Ma gli episodi di questo tipo si sono replicati come una costante inspiegabilmente inevitabile. Fin dall’origine di tutto. Si parla molto in questi giorni del fatto che già tra novembre e gennaio in Val Seriana i casi atipici di polmonite fossero oltre la media del periodo. È evidente che finché, il 9 gennaio, la notizia dell’epidemia in Cina non ha straripato nel resto del mondo, sarebbe stato impossibile ipotizzare la presenza del coronavirus in provincia. Ma si fa fatica a credere che a nessuno sia sorto un dubbio, quando la notizia del lockdown a Wuhan ha chiarito la gravità della situazione. Eppure è quello che deve essere successo, forse anche perché a inizio anno molti scienziati avevano la convinzione che il contagio non avrebbe navigato per migliaia di chilometri, dalla Cina all’Italia. Sta di fatto che fino al 20 febbraio nessuno ha pensato di fare un tampone.
Quando però, col paziente 1, è stato chiaro che il virus aveva preso un aereo (molti aerei, probabilmente) ed era sbarcato in Lombardia, ci siamo trovati di fronte a una mancanza di reazione inspiegabile. Cosa possa aver fatto credere a politici e dirigenti della sanità — non a tutti, vedi l’esempio veneto — che l’evoluzione nel Nord Italia sarebbe stata diversa da quella dell’Hubei resta la domanda più importante. Eppure, in quei giorni di fine febbraio, mentre la politica locale e il mondo economico chiedevano di non istituire zone rosse e di rilanciare le attività commerciali, c’erano medici (autorevoli e impegnati in prima linea) che imploravano di andare nella direzione opposta: contenere e limitare le interazioni sociali per proteggere le persone più fragili e la tenuta stessa del sistema sanitario. Credere al rischio di una catastrofe, per troppi, forse, implicava il timore di una cessione di quelle quote di potere che per chi ha ruoli di comando sono prioritarie e irrinunciabili. Un difetto imperdonabile, quello della mancanza di ascolto, soprattutto quando a parlare è chi di questioni sanitarie se ne intende, mentre la competenza della nostra classe politica è apparsa a più riprese dubbia: avere un ministro della Salute laureato in Scienze politiche e un assessore alla Salute avvocato e non fortissimo con le scienze (lo spiegone sull’indice di contagiosità è entrato nella storia) non è stato un colpo di fortuna in questa fase. Gli esempi, dal locale al nazionale, sono tanti. L’Ats di Bergamo quando le Rsa della provincia, preoccupate per i possibili contagi, decidono di chiudere i centri diurni, invia ispezioni per far sì che i servizi restino aperti. Quando l’Istituto superiore di sanità suggerisce di istituire la zona rossa in Val Seriana, il governo Conte lascia passare qualche giorno, così, tanto per non decidere. Quando tutta la comunità scientifica chiede di tracciare i malati e i loro contatti, puntando sui tamponi, la Regione Lombardia prosegue imperterrita a testare solo i casi di malattia già conclamata. Ora dovremmo credere che la stessa classe dirigente ci porterà fuori da questa situazione. Speriamo con tutto il cuore che quando i medici di base denunciano ritardi e mancanze nella programmazione del piano per l’autunno, per una volta, si stiano sbagliando.