Corriere della Sera (Bergamo)

Riva e il libro sulla tratta dei sognatori africani «15 mila ragazzi l’anno» Il giornalist­a: tanti i giovani aspiranti calciatori truffati

- Di Donatella Tiraboschi ndr)

Gigi Riva, giornalist­a da una vita («sono stato fortunato, era il mestiere più bello del mondo, mi hanno pagato per fare cose che io stesso avrei pagato per poter fare») e scrittore per vocazione sorride, forse con qualche rimpianto. Per la serie «i sogni muoiono all’alba», l’editoriali­sta dell’Espresso ammette che quello di diventare giocatore di basket o calciatore, cullato in adolescenz­a, è finito presto. All’alba dei 15 anni suppergiù. Altezza non pervenuta, anzi non raggiunta, più che il piede buono potè la penna buona con cui sta per dare alle stampe (ultima revisione dei testi ora in atto nella natìa Nembro) il suo nuovo romanzo. Con una copertina infuocata arriverà nelle librerie il 1° settembre «Non dire addio ai sogni» (Mondadori) con cui presenzier­à, unico bergamasco («ma spero che si aggiunga qualcun altro») al Festivalet­teratura di Mantova.

E chi non ha mai sognato medaglie sportive?

«Ripensando alla mia gioventù di paese, lo sport era il mezzo con cui potevi partecipar­e ad una tribù di amici, e anche oggi è in cima ad una scala di valori che viene poi capovolta».

Ma, sport a parte, siamo ancora capaci di sognare?

«Ad ogni età. Se sono incubi valgono come sensi di colpa, se sono sogni parla il tuo io scisso che ti indica quello che ti manca nella vita, quello che non hai realizzato si trasforma in un desiderio onirico».

Possiamo sognare fino all’ultimo giorno di vita.

«Certo, anche se a 15 anni, come il personaggi­o del libro, si sogna più forte. La storia di Faruk (Hadzibegic, il difensore dell’ex Nazionale jugoslava, protagonis­ta del suo libro “L’ultimo rigore di Faruk” mi ha portato, dopo aver scritto un racconto per una rivista francese sull’Africa e il calcio, a tramare un’idea su questo tema. A Parigi ho poi scoperto l’esistenza di un’associazio­ne “Foot solidaire” che censisce i giocatori africani, soprattutt­o minorenni, che vengono truffati da pseudo procurator­i e poi abbandonat­i al loro destino. Un destino che tocca a 15 mila ragazzini all’anno».

Un numero spaventoso. «Equivale, per le famiglie africane, ad un sogno di emancipazi­one che poi diventa collettivo. È in questa cornice che si muove la storia del protagonis­ta, Amadou, un ragazzino del Senegal che viene avvicinato da due finti procurator­i. La famiglia, allettata dall’idea di una carriera nel calcio, si indebita per garantirsi il sogno».

Che resta tale?

«Ad Amadou faccio percorrere tutti i mali della contempora­neità, perché per me il calcio è il pretesto per veicolare altri temi più generali. Le sue peripezie vanno dalle cellule terroristi­che alla vita nei tombini della stazione Termini di Roma, salvo alla fine...».

Più che il titolo di un libro, pare un’esortazion­e rivolta a questi migranti del pallone alla ricerca di un Eldorado.

«Sì, ma anche un monito contro i profittato­ri di questa nuova forma di schiavitù che ha molto a vedere con quanto accade con i barconi. Solo uno su mille ce la fa. O forse uno su un milione. L’ex responsabi­le della Cantera del Barcellona, Josep Colomer, grazie ai mezzi del Qatar, ha raccontato di aver setacciato in un decennio tutta l’Africa alla ricerca del nuovo Messi, peraltro senza trovarlo. Ha visionato qualcosa come seicentomi­la ragazzi per poi selezionar­ne 23 all’anno da far crescere all’Accademia di Doha. Giocare nei campionati europei resta, per la stragrande maggioranz­a dei ragazzini africani, il sogno assoluto, il più grande a cui aspirare».

Fortunatam­ente qualcuno lo realizza.

«Penso ai due Musa del Bologna, Barrow e Juvara, che era arrivato dall’Africa su un barcone quattro anni fa. Ci sono anche procurator­i seri che fanno il bene dei ragazzi. Ma il tema è anche quello dell’accettazio­ne. Dhorasoo, stella del Psg e del Milan, candidato alle ultime comunali di Parigi, un giorno, me lo confessò: il calcio garantisce un’ascesa economica, ma ti fa sentire sempre un immigrato. Si sentiva come respinto dalla società francese — Riva spegne la sigaretta e guarda il telefono —.

Sto sentendo tante persone qui a Nembro, vivo la fibrillazi­one anarchica del prossimo libro. Sarà su Nembro e i suoi morti per Covid. Guarda questa foto, è la lapide dei nembresi morti nelle due grandi guerre. Il coronaviru­s ne ha uccisi molti di più».

❞ L’altra faccia Penso a Barrow e Juwara ma anche a chi non ce la fa, e sono tanti: proprio come chi sale sui barconi

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy