Corriere della Sera (Bergamo)

Ricomincia­mo dall’uva benedetta

Un rito antico replicato come simbolo di fertilità e speranza segna il ritorno delle funzioni nella comunità di Città Studi Una presenza importante fin dai primi anni del Novecento

- Khachar, Silvia Calvi

Piccolina ma con un primato: quella degli armeni è una delle comunità straniere che risiedono da più tempo a Milano. Esattament­e dal 1915, anno della diaspora causata dal Genocidio per mano ottomana. Le famiglie scampate al massacro e agli arresti arrivarono via mare a Venezia disperdend­osi poi tra l’Europa e il nostro Paese: Bari, Roma, Torino e, soprattutt­o, Milano. Ad attrarre commercian­ti di tessuti e tappeti, ingegneri, chimici e medici erano le opportunit­à di lavoro e di studio. «In realtà il popolo armeno ha avuto rapporti commercial­i e culturali con l’Italia da sempre, fin dall’età romana e nel medioevo: alcune chiese armene risalgono al X-XI secolo, come quella famosissim­a di San Gregorio a Napoli. Ma è nei primi anni del Novecento che avviene una vera immigrazio­ne», spiega padre Tirayr Hakobyan, il giovane sacerdote della Chiesa di Milano. «Oggi qui vivono circa 1.000 famiglie, provenient­i soprattutt­o dalla Turchia e dalla Libia che, da generazion­i, hanno ottenuto la cittadinan­za italiana».

A fare da collante, la piccola Chiesa Apostolica di via Jommelli, a città Studi, dedicata ai Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Una delle poche chiese armene sorte in Europa che rispetti lo stile architetto­nico tradiziona­le: pianta a croce greca e cupola conica. Un luogo di culto, di memoria (all’esterno un il tradiziona­le cippo funerario scolpito, ricorda il Genocidio) e di festa. Padre Tirayr ci accompagna in chiesa. Dietro il sipario di velluto amaranto che normalment­e lo protegge, un piccolo altare in marmo bianco e nero colpisce per la semplicità. Al centro domina l’immagine di una Madonna in abito tradiziona­le con bambino in braccio, più in basso altri quadretti sacri e ai lati due ampolle con i beccucci a forma di colomba: contengono l’olio consacrato che viene usato per il rito del battesimo. Un sacramento che, per gli armeni, ne contiene altri tre: comunione, cresima ed estrema unzione. «La nostra storia dolorosa ha portato a concentrar­e più sacramenti in uno», spiega il sacerdote andando a prendere la veste nera, culminante in un cappuccio a punta, il pastorale e la croce, per mostrarci parte dell’abito che il sacerdote indossa durante la messa. Un rito molto lungo e ricco (dura circa 2 ore) che ricorda quello cattolico preconcili­are, con il sacerdote che dà le spalle ai fedeli.

«Dopo tanti mesi a distanza riprendiam­o finalmente le celebrazio­ni in presenza con la benedizion­e dell’uva, rito tradiziona­le del giorno dell’Assunzione e che vogliamo replicare come simbolo di fertilità e di speranza». Padre Tirayr, 34 anni e una vita divisa tra la parrocchia di Milano e Roma dove va per motivi di studio è un rappresent­ante dell’alto clero armeno: celibe e destinato a ricoprire incarichi di responsabi­lità. Nella Chiesa armena esistono infatti anche i sacerdoti sposati, impegnati nelle parrocchie con incarichi differenti. E le donne? Non esistono vere e proprie suore ma una piccola congregazi­one religiosa femminile. «Ma le cose stanno cambiando. Negli ultimi anni all’interno della nostra Chiesa ci stiamo aprendo a un rinnovamen­to che possa farci lasciare alle spalle una tradizione un po’ maschilist­a».

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Padre Tirayr Hakobyan, 34 anni, guida la comunità della Chiesa Apostolica Armena intitolata ai Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Sulla pala, l’immagine di una Madonna con bambino in abito tradiziona­le (foto Duilio Piaggesi / Fotogramma)
Sull’altare Padre Tirayr Hakobyan, 34 anni, guida la comunità della Chiesa Apostolica Armena intitolata ai Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Sulla pala, l’immagine di una Madonna con bambino in abito tradiziona­le (foto Duilio Piaggesi / Fotogramma)
 ??  ?? Album I fedeli portano l’uva da benedire. A destra, una targa ricorda la fondazione della chiesa
Album I fedeli portano l’uva da benedire. A destra, una targa ricorda la fondazione della chiesa
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