«Mille trapianti di cuore, storia decisiva»
Al Papa Giovanni. Il direttore Senni: strada decisiva
L’ospedale Papa Giovanni XXIII ha raggiunto il trapianto di cuore numero mille. L’ultimo intervento su un bergamasco di 63 anni. E il direttore del Dipartimento cardiovascolare Michele Senni racconta come la storia dei trapianti sia stata decisiva, in generale, per le cure degli scompensi cardiaci, anche quindi per i non trapiantati. «Una pietra miliare della nostra attività», secondo la direttrice Beatrice Stasi.
Il Papa Giovanni ha tagliato il traguardo del trapianto di cuore numero mille, su un paziente bergamasco di 63 anni. Ma è un traguardo simbolico, perché lo sguardo, oggi come nel 1985, quando l’ospedale di Bergamo fu il terzo in Italia a eseguire quel tipo di intervento, resta proiettato in avanti, al futuro. In sala, come primo operatore, c’era Amedeo Terzi, con la sua équipe affiatata: «Come era successo altre 999 volte prima, quando il cuore trapiantato ha cominciato a battere, abbiamo applaudito». La tradizione continua ad attualizzarsi, oggi il Papa Giovanni è il quinto ospedale in Italia per numero di trapianti. La direttrice generale parla di «pietra miliare della nostra attività», e il direttore del Dipartimento Cardiovascolare, Michele Senni, ricorda il pioniere dei pionieri, «Lucio Parenzan, un maestro per me e per tutti».
Dottor Senni, il traguardo simbolico c’è tutto, ma non si smette mai di correre e crescere.
«Esattamente, la storia prosegue».
Cosa è cambiato dal novembre di 35 anni fa?
«Tante cose, soprattutto la tipologia del paziente. Oggi abbiamo a che fare con pazienti più gravi perché c’è una selezione prima: la terapia medica dello scompenso cardiaco è molto migliorata. E quindi si arriva all’intervento per casi davvero gravi. In questo senso il trapianto è andato oltre se stesso».
In che senso?
«La spinta propulsiva di questi interventi ha inciso sulla terapia medica. I centri specializzati hanno iniziato a occuparsi da vicino dei pazienti, inizialmente, per farli arrivare al trapianto. Poi a poco a poco hanno migliorato le terapie. È come se i trapianti avessero fatto strada, aprendo una porta importantissima».
Il trapianto di cuore, quindi, ha aiutato anche chi non è stato sottoposto a quell’intervento.
«Assolutamente sì, tante storie di cure, direi della Medicina in generale, sono iniziate grazie a quella porta che si è aperta. Il trapianto in sé è una goccia nel mare, ma che è stata in grado di creare tantissimi benefici».
Le tecniche sono cambiate molto?
«Non così tanto in generale, per i trapianti pediatrici un po’ di più. Sono però cambiati gli strumenti che permettono di far arrivare il paziente al trapianto, come il cuore artificiale, l’assistenza ventricolare. E sono sistemi che, tornando al ragionamento di prima, aiutano anche i pazienti che non hanno bisogno dell’intervento».
Oggi, rispetto al passato, è calcolabile il livello di rischio del trapianto di cuore?
«L’ottica è un’altra. Quando si sceglie un ricevente si sa anche che qualcun altro non può ricevere. E quindi la scelta deve essere molto oculata. È in quella fase che ci si assume una responsabilità importante. Accade per ogni tipo di trapianto, ma il cuore è un esempio estremo proprio per la sua scarsa disponibilità».
In Italia 700 pazienti in attesa, 200 quelli che si riescono a sottoporre all’intervento in un anno. E il gap continua ad aumentare.
«Il futuro sta proprio lì, nell’andamento delle donazioni: se continuasse questo trend non si potrebbe far altro che migliorare la selezione dei candidati, grazie alle cure».
L’intervento Il chirurgo: «Abbiamo applaudito quando il cuore trapiantato ha iniziato a battere»