Sotto il vestito quasi tutto Riordinare l’armadio per combattere inquinamento e sfruttamento
Un libro sulle conseguenze della «fast fashion»
Di bulimia della moda ha parlato re Giorgio, alias Giorgio Armani, per la prima volta durante il lockdown. Una riflessione pacata nei toni, potente nel significato: «Basta con gli sprechi nel settore moda». Lo stilista è ritornato sul tema in questi giorni, alla vigilia della Fashion Week che ha riportato a Milano le modelle, insistendo sul concetto che è arrivato il momento di produrre meno, confezionare meno. Plaude entusiasta Luisa Ciuni, giornalista e critica di moda. «Dichiarazioni forti e preziose, c’è bisogno di un vero cambiamento nel settore. Ora, non domani. Non si può continuare a tenere gli occhi chiusi», dice. Sul tema della bulimia della moda, della forza drogante del low cost, degli acquisti compulsivi, della qualità inesistente, di sprechi e sfruttamento, Ciuni e Marina Spadafora, stilista, attivista, Fair Fashion Ambassador (è come dire testimonial della moda pulita), insistono da tempo, da molto prima che il Covid contribuisse a spingere verso una nuova filosofia. Questa sera, alla Fondazione Sozzani, Ciuni e Spadafora presentano il libro scritto a quattro mani «La rivoluzione comincia dal tuo armadio. Tutto quello che dovreste sapere sulla moda sostenibile» (Solferino), e ne dialogano con Alan Friedman
Nessuno più considera la moda cosa frivola, il suo valore è noto, è un sistema che garantisce lavoro a 75 milioni di nel mondo. Non si sa, invece, o si finge di non sapere, che è una delle industrie più inquinanti (forse addirittura la prima). Ciuni sorvola sui fiumi che cambiano colore a causa degli scarichi del tessile e delle lavanderie, sulle discariche a cielo aperto nel sud del mondo, e sceglie un esempio ancora più d’effetto.
Svela che «l’invenduto si brucia, per non sminuirne il valore negli outlet». Quintali di vestiti che non incontrano i gusti dei clienti finiscono negli inceneritori, «una combustione incontrollata che fa malissimo al pianeta». Non è solo un problema ambientale. Nel libro è messo ben in evidenza che dietro ai prezzi bassi, bassissimi, che invogliano all’acquisto, c’è sfruttamento. Se una maglietta costa cinque euro, quanto può valere la giornata di lavoro di chi l’ha confezionata? Ovviamente, molto meno della metà.
Soluzioni? «Comprare meno, cercare la qualità, far durare i nostri vestiti nel tempo: sono regole auree che dovremmo seguire tutti», spiega Marina Spadafora. Che agpersone giunge: «Il vestito più sostenibile è quello già presente nel nostro armadio, se non ci sta più e non può essere modificato, possiamo regalarlo, scambiarlo, dargli nuova vita». Non è l’unica indicazione: ai fashion addicted, che non riescono a rinunciare, la stilista suggerisce di comprare in modo più consapevole, di avere un occhio critico. «È facile, basta una piccola ricerca, oramai ci sono app, siti, portali, dove è possibile verificare la responsabilità sociale di un marchio. Non si tratta di affossare l’industria della moda, ma di obbligarla a produrre capi realizzati con regole eque verso il pianeta e le persone».