Premio Bergamo Parazzoli e l’amore per Dostoevskij
Per Ferruccio Parazzoli scrivere è vitale. Questo è quello che conta, non pubblicare libri. «Scrivi, scrivi se puoi è il consiglio che do a chi ha turbamenti — dice lo scrittore, tra i finalisti del Premio Nazionale di Narrativa Bergamo —. Per me scrivere è una medicina, ma non lo si può fare se non si vive guardandosi attorno. Io cammino tantissimo. Milano è la mia San Pietroburgo. Piazzale Loreto, dove abito, è piazza Sennaja. I vicoli e le strade, gli impiegati che corrono e le storie che ruotano attorno, buffe, drammatiche, il mio vivere. Guai non avere questa visione. Senza, è impossibile. Scrivere è un’osservazione continua. È un rimandare alla memorie, ricordare i dialoghi ascoltati, le risate. Tutto è un universo che entra e si concentra per poi essere trasmesso. Lo scrittore ha in sé un enorme magazzino, da cui tira fuori ciò che gli serve».
La riflessione sul demone che anima uno scrittore è il tema attorno al quale ruota «Il grande peccatore», che l’autore presenterà in diretta Instagram, e sui canali social del premio, oggi alle 18, intervistato da Maria Tosca Finazzi. Partendo dalla finzione letteraria di un librino ritrovato, Parazzoli rivisita la biografia, o meglio «l’antibiografia del grande Fëdor Michajlovich Dostoevskij», per citare Razumichin. Personaggio di «Delitto e castigo», insieme a Raskol’nikov, è ripreso dall’autore come medium per scavare nel sottosuolo l’uomo Dostoevskij, spesso identificato nel romanzo come FM. Impossibile da decifrare.
«Tu mi dirai chi sono» dice FM a Razumichin. Quale
Dostoevskij emerge dal romanzo?
«Non sapremo chi fosse. Brancoliamo. Era un uomo che non finiva mai di sprofondare in se stesso. Sul letto di morte disse che doveva scrivere il seguito dei Fratelli Karamazov, dove Alyosha sarebbe diventato il contrario: da buono a nichilista. Dostoevskij si ribalta continuamente. Non finisce mai. Non sapremo dove poteva arrivare. In questo è il grande peccatore».
Come nasce l’idea del libro?
«L’avevo in testa da anni. Quando trovai un album francese con riprodotti i ritratti dei volti di Dostoevskij nelle diverse epoche, dalla gioventù a dopo la prigionia in Siberia, e quelli delle sue donne, rivissero in me tutti i suoi personaggi. Decisi di ritrarli a parole con un iperrealismo trasmutato in qualcosa di fantastico».
Perché ha scelto Razumichin per raccontare l’abisso che animava FM?
«Nella narrativa dostoevskijana è un personaggio ambiguo. Aiuta e al contempo commette dei guai. Così mi è venuto di appiccicargli addosso il ruolo di chi conosce il bene e il male di Dostoevskij, di cui ho voluto scrivere un’antibiografia, come esercizio di verità. Spesso gli scrittori diventano miti e perdiamo il loro essere uomini».
Nell’aspirazione di Razumichin di diventare come Dostoevskij c’è la riflessione sulla figura di scrittore.
«Da tempo il demone della scrittura è il tema centrale della mia narrativa. Lo scrittore cerca di dare un ordine al caos, che sono la vita e i sentimenti. Il suo compito è scrivere una storia che abbia senso in un mondo insensato. Vede ciò che gli altri non vedono».
A quando risale il suo amore per Dostoevskij?
«In maturità. Quando avevo 25 anni c’era la letteratura americana, Hemingway, Steinbeck. Mi affascinavano, ma non portavano a ritrovare se stessi, bensì l’immagine di chi si voleva essere. Niente di più sbagliato per uno scrittore. Maturando sono arrivato a Dostoevskij e da lì è stato un immergersi nel sottosuolo».
Nel «grande peccatore» lei dove è?
«Nell’invidia, che poi è amore, provata da Razumichin verso Dostoevskij sono Razumichin, nel modo di osservare la vita, Dostoevskij».
Passione matura «Da giovane amavo gli americani, Hemingway, poi ho scoperto il valore di Dostoevskij»
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