Ubi, i voti con le deleghe Scontro sul metodo Gdf
I consulenti della difesa: non casuale, nulla sulle liste 2 e 3. Il pm: nessuna selezione
Per spiegare che cosa la statistica intenda per campione casuale, al processo Ubi i consulenti della difesa sono ricorsi a due esempi. Guido Consonni, professore alla Cattolica, per Emilio Zanetti (avvocati Giuseppe Bana e Filippo Dinacci), all’urna del lotto. Per semplificare al massimo. «Pensate di metterci i voti con delle palline con scritto regolare - irregolare. Si tratta di togliere le palline a caso». Anna Maria Paganoni, docente al Politecnico di Milano, per la banca (avvocati Francesco Centonze e Fabio De Matteis), ha citato i presenti: «Se volessi la percentuale dei laureati in Italia e scegliessi le persone in aula probabilmente otterrei il 100%. Non è un campione casuale, perché non ho scelto a random».
Per le difese, il concetto è fondamentale per i voti della lista 1 confermata nell’assemblea del 2013 contro due liste concorrenti. Ma secondo il pm Paolo Mandurino, la vittoria fu determinata da deleghe in bianco sui 4.491 voti per delega. Sentendo un campione di 418 soci tra delegati e deleganti, per 789 voti, la Guardia di finanza calcolò l’85% irregolare, proiettando la percentuale su tutti i voti per delega.
É questo il metodo che gli avvocati hanno contestato, facendolo spiegare ai consulenti. I temi principali sono tre: come è stato scelto il campione, se la percentuale del campione si poteva estendere a tutti i voti per delega, e la mancata indagine sulle due liste concorrenti.
Il campione è la base del ragionamento dei consulenti. Quello «casuale è l’unico valido dal punto di vista scientifico», è stato perentorio Consonni. Quello della Gdf, dice, «posso chiamarlo metodo investigativo ma non statistico». Nel dettaglio lo spiega Paganoni: «Il vulnus principale è la selezione non corretta delle unità da analizzare. Se vado a vedere i parenti o le persone lontane (delegati che hanno votato per deleganti di regioni diverse ndr), sto creando una non casualità». I consulenti hanno sottolineato che per avere un valore probabilistico bisogna inoltre decidere già prima di procedere quante persone sentire e con quali criteri, non strada facendo. Con un campione «inficiato in modo irreparabile», per usare le parole di Paganoni, e con dei «vizi di fondo», per usare quelle di Consonni, la conclusione sui calcoli della Gdf è che «questa percentuale non ha nessuna possibilità di parlarci della percentuale delle deleghe irregolari». Cioè dal campione non si può estendere a tutti i voti per delega. L’alternativa era il censimento, cioè «sentite tutti i votanti», ma non fu percorsa per questioni di tempo.
Ieri l’accusa si è trovata a difendere le indagini (non è la prima volta): «La polizia giudiziaria aveva solo l’età e la residenza dei soci, non sapeva prima se avessero una delega falsa. Incide sulla attendibilità?». Gira e rigira si torna al punto di partenza: «Il campione non è più casuale», ribadisce Paganoni. Viziato il metodo, per i consulenti poco incide se sono stati chiamati 418, non 20, soci.
Altro tema: «A logica, andava fatta un’indagine anche sui voti delle altre due liste», Consonni. «Il risultato sulla lista 1 non dice nulla sul confronto con le altre due», Paganoni. La spiegazione è in una domanda provocatoria del pm alla consulente: «Le risulta ci fosse una notizia di reato sulla lista 2 e sulla lista 3?».
I 418 soci La finanza sentì deleganti e deleganti: calcolò l’85% di voti per delega irregolari