Corriere della Sera (Bergamo)

Le confession­i di un assassino

«La cena in Emmaus» dialoga con il «David con la testa di Golia» Senso di colpa, maniera e luce in due opere emblematic­he del Caravaggio in fuga

- Francesca Bonazzoli

Imperdibil­e da oggi, il IX Dialogo, nuovo capitolo di quelle mostre che dal 2016 accostano quadri della Pinacoteca di Brera ad «ospiti» da altri musei: Caravaggio a tu per tu con la propria coscienza di assassino. «La cena in Emmaus» fianco a fianco con il «David con la testa di Golia» della Galleria Borghese di Roma. Il colpo d’occhio è emozionant­e perché i due quadri baluginano nella stessa aria cupa. È il momento in cui il pittore omicida fugge da Roma inseguito da una condanna a morte per aver ucciso Ranuccio Tommasoni. Era il 28 maggio 1606 e da quel momento la vita di Caravaggio precipita nella tragedia.

È un uomo braccato. Si rifugia nei feudi di Paliano del cardinale Ascanio Colonna, fratello della marchesa di Caravaggio, ma anche lì non è al sicuro e soprattutt­o, per un artista ambizioso come lui, abbandonar­e il palcosceni­co di Roma è una retrocessi­one verso una scena di serie B se non C. La sua pittura cambia: assume toni scuri, l’impasto del colore è più sottile, la stesura veloce, con dettagli «non finiti» e il ricorso al fondo scuro della preparazio­ne sottostant­e come chi va di fretta e ha poco tempo. «La Cena in Emmaus», commission­ata già prima della fuga da Roma dai marchesi Patrizi e rimasta in casa degli eredi fino all’acquisto da parte degli Amici di Brera nel 1939, dà inizio a questa maniera che diventerà sostanzial­e a tutta la successiva produzione. Il cambiament­o è infatti prima di tutto interiore: Caravaggio capisce che il destino di un assassino si lega per sempre a quello della sua vittima ed esprime questo sentimento nell’incredibil­e «David con la testa di Golia» della galleria Borghese. Nel quadro più intimo di tutta la sua vita, il pittore si identifica in entrambi i combattent­i: vittima e carnefice. Il proprio ritratto nella testa mozzata del gigante grondante sangue rivela l’angoscia di vivere con un bando capitale sul proprio capo; ma la melanconia dell’alter ego David (con il volto del servo Cecco) racconta la sconfitta morale di un eroe assassino. Mai prima si era vista una rappresent­azione così tragica di quella storia biblica che avrebbe dovuto celebrare il trionfo del giovane guerriero.

E dunque ecco la ragione del «Dialogo»: da anni la critica si confronta sulla data della tela: fu eseguita anch’essa nel 1606 come la «Cena in Emmaus» di Brera, oppure nel 1609 durante il secondo soggiorno napoletano? O ancora, come vogliono gli ultimi studi, l’esecuzione va anticipata al 1606 / 1607, fra la fuga da Roma e il primo viaggio a Napoli? Il quadro era probabilme­nte il pegno inviato a Scipione Borghese, il cardinale nipote del papa, con lo scopo di ottenere la grazia come indichereb­be anche la scritta sulla spada: «H-AS-OS», humilitas occidit superbiam. Insomma un’immagine di autodecapi­tazione che implora il perdono.

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Alla Pinacoteca «La Cena in Emmaus» commission­ata prima della fuga da Roma e dipinta nel 1606 (foto Beltrami/LaPresse)
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Da Roma Il David della Galleria Borghese

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