I dieci anni di Gori e il futuro: «Il Covid mi ha insegnato cos’è davvero un sindaco Il Pd parli di crescita al Paese»
Le ultime settimane a Palazzo Frizzoni: l’8 maggio il lancio della campagna per le Europee, i bilanci inevitabili «Il nostro lavoro in città riconosciuto da tanti, in tutta Italia»
L’8 maggio, al Centro Congressi, Giorgio Gori lancia dalla sua città la candidatura alle Europee, puntando su ciò che ormai è il tratto sostanziale della sua figura politica: essere da dieci anni il sindaco di Bergamo. Con lo staff sta ancora riflettendo sugli slogan da usare da qui all’8 giugno, ma quella parola, «sindaco», ci sarà. Per forza. «È il lavoro di questi anni che viene riconosciuto ovunque vada a promuovere la mia candidatura». E lì, in quella riconoscibilità, c’è il bilancio di un decennio.
Il Pgt approvato, le grandi opere avviate, la fontana di via Autostrada accesa. Cosa resta da fare prima di lasciare l’ufficio di Palazzo Frizzoni?
«Ci sarà un ultimo passaggio in Consiglio comunale con il bilancio consuntivo. E poi, il 30 maggio inaugureremo il giardino dell’Accademia Carrara, con il bistrot. Era l’unico pezzo mancante del progetto della Capitale della Cultura».
Tra dieci anni cosa verrà ricordato dei due mandati di Gori?
«Mio malgrado, la mia storia di sindaco è stata attraversata dalla vicenda del Covid e credo che tra dieci anni tutti ci ricorderemo di quei momenti. Il modo in cui abbiamo gestito l’emergenza e poi la fase della ricostruzione: questa secondo me è la storia più rilevante di questi anni. Che Bergamo potesse permettersi, solo 3 anni dopo lo scoppio della pandemia, di essere Capitale della Cultura e nel modo in cui lo è stata, nessuno nel 2020 l’avrebbe immaginato. Ovviamente se la città si è ripresa così bene e così velocemente è per merito dei bergamaschi, ma credo che come amministrazione abbiamo avuto un ruolo di leadership, dando il tempo sui progetti, la spinta».
Il momento peggiore ha tirato fuori il meglio. Questo è il senso?
«Arrivati al termine di dieci anni di lavoro è fatale fare dei bilanci. Ed è così: ciò di cui sono più orgoglioso è il modo in cui da sindaco ho aiutato la città a reagire. Dieci anni fa sono entrato qui con l’idea di poter contribuire con la mia esperienza professionale a migliorare le cose, un po’ da manager della città. Cammin facendo ho scoperto che fare il sindaco è un’altra cosa, ma il Covid è stato il momento in cui ho capito quanto mi sbagliavo, quanto conti la dimensione emotiva in questo lavoro, quanto sia importante il legame che si crea con le persone. Ancora oggi c’è chi mi ferma per strada per ringraziarmi di ciò che si fece durante la pandemia, perfino delle telefonate registrate per dare informazioni».
Le iniziali sottovalutazioni, anche da parte sua, i tanti morti, la zona rossa mancata, la gestione sanitaria. Al di là delle inchieste giudiziarie finite quasi in niente, Bergamo ha fatto i conti con quel momento tragico e con le responsabilità della politica?
«Mah, se, ad esempio, i lombardi hanno votato Attilio Fontana si vede che non l’hanno ritenuto così tanto responsabile di ciò che è successo. Oppure che l’appartenenza politica alla fine passa perfino sopra a una vicenda del genere. Non credo che oggi ormai ci sia qualcosa che non sappiamo davvero di ciò che è successo in quelle settimane. Al di là delle sottovalutazioni, che hanno coinvolto anche me, il pronto soccorso chiuso e riaperto, i tentennamenti sulla zona rossa che alla fine sarebbe comunque arrivata tardi, le debolezze umane e politiche ormai sono chiare. E siccome sono uno che non è esente da errori, faccio fatica a puntare il dito contro uno, a parte il lato penale che come prevedibile è andata in nulla. Semmai il punto è ciò che è venuto dopo e che vediamo ora, sul lato della sanità».
Il sistema sanitario pubblico non sta forse peggio di allora?
«In quella fase è emersa la fragilità di un sistema tutto orientato sull’eccellenza, in cui la medicina di base era abbandonata a se stessa, un prezzo che abbiamo pagato tutti. E oggi i numeri li conosciamo, la situazione non è migliorata e anzi, a parte qualche mascherina in più, si può dubitare che di fronte a una nuova pandemia sapremmo reagire meglio».
Quando lei divenne sindaco, nel 2014, Bergamo era una città con meno turismo e senza marchio Unesco, ma era sede di grandi gruppi che oggi non esistono più o sono stati venduti, da Italcementi a Ubi. Si può parlare di una città più debole o solo diversa?
«La stagione delle banche locali e delle rispettive fondazioni, che hanno fatto la fortuna di tante città piccole e medie, come la nostra, è finita ed è finita anche quella di una certa grande industria. Ma l’importante, per la città, è tenere le relazioni con chi c’è ora. Cito la nostra esperienza con Intesa, che è stata decisiva sia nel rilancio subito dopo il Covid che nel sostegno
❞ I giorni tragici Ormai di ciò che accadde nelle prime fasi del Covid credo sia tutto noto: ci furono errori e sottovalutazioni, io stesso non ne fui esente
ai progetti della Capitale della Cultura. Sul territorio poi non ci sono più alcuni grandi attori, ma c’è una rete imprenditoriale e industriale che forse sta anche meglio di dieci anni fa e con la quale è possibile dialogare per costruire progetti».
Nuova Gamec, T2 della Teb, treno per Orio, raddoppio verso Ponte San Pietro, nuova stazione, linea elettrica eBrt per Dalmine. Il Pnrr porta tante opere a Bergamo. Il termine del 2026 per tutti questi lavori è realistico?
«Non c’è un solo progetto di questi che sia in ritardo, procediamo secondo le tabelle di marcia. Il punto è come farle funzionare, dopo. Sulla futura Bergamo-Orio bisogna ottenere uno o due treni diretti Milano-Bergamo-aeroporto l’ora. E poi c’è il tema enorme della gestione, ad esempio su Teb e Brt: alcuni milioni di euro l’anno da aggiungere per il funzionamento di queste linee. È un tema generale in Italia, dove lo Stato spende complessivamente 5,1 miliardi di euro l’anno per far funzionare tutto il trasporto pubblico, troppo pochi».
Temi da sindaco e da candidato alle Europee. Quando fece la prima tessera del Pd nel 2011 si sarebbe aspettato che negli anni seguenti questa sarebbe stata la sua parabola politica?
«Per niente, proprio. Non immaginavo di certo di fare il sindaco per dieci anni. All’epoca sentivo l’urgenza di fare qualcosa per il Paese, mettendomi a disposizione. Era il momento in cui l’Italia era nel pieno della crisi finanziaria e pensavo che non fosse possibile fare solo la mia vita, occupandomi delle mie cose. A quel punto incrociai Matteo Renzi e tutto partì da lì, da quel progetto di cambiare prima il Pd e poi tutto il Paese».
Lei fino a che punto della parabola di Renzi ne ha capito le scelte?
«Diciamo che ho capito tutto, o quasi, finché è stato nel Pd. Il che non vuol dire che abbia condiviso ogni scelta, ad esempio la sicurezza estrema con cui affrontò il referendum costituzionale, solo contro tutti, fu un errore. Ho sentito grande solidarietà verso le sue scelte anche nella sconfitta del 2018, ma quello che non ho capito è stata la scelta di andarsene. Perché, oggi, cosa gli resta in effetti?».
Oltre a Renzi, Carlo Calenda lasciò il Pd. Due riferimenti dell’area riformista, che poi è la sua. Molti si aspettavano che in pochi mesi lei li avrebbe seguiti. Perché non è successo?
«Perché la loro necessità di esercitare una leadership è molto più forte della mia e perché continuo a ritenere più utile portare avanti le mie battaglie in un grande partito, contendibile, che dentro una piccola formazione personale».
Al momento dell’elezione di Elly Schlein disse che sarebbe rimasto nel Pd solo se si fossero evitate ambiguità su alcuni temi, come il sostegno all’Ucraina. La candidatura alle Europee conferma che in questo partito è a suo agio?
«Ci sono sensibilità diverse e probabilmente Elly Schlein, a livello personale, coltiva dei dubbi. Ma non credo che il partito sia schizofrenico, avendo votato sempre a sostegno dell’Ucraina. Restano comunque sensibilità diverse: nella campagna del Pd per le Europee ci sono proposte condivisibilissime su sociale, verde, diritti, ma mi pare che manchi un riferimento forte ai temi della competitività e della crescita».
Percepisce un calo della fiducia verso il Pd da parte dei settori produttivi del Paese, a partire dalle imprese?
«Eh, secondo me dobbiamo lavorarci. C’è ascolto, c’è attenzione, ma ci sono anche punti di domanda. Come la costruiamo la ricchezza necessaria per poter parlare poi di redistribuzione, di welfare generoso, di sanità da miglio
La ripresa con il Pnrr I cantieri procedono con puntualità. Il tema poi sarà come utilizzare le nuove infrastrutture: servono più fondi statali per il trasporto pubblico
Il punto d’orgoglio
Aver aiutato la città a reagire al Covid è ciò di cui vado più fiero. È stato il momento in cui ho sentito quanto pesino le componenti umane nel lavoro di sindaco e ho capito quanto mi sbagliavo quando pensavo di fare il «manager della città»
Oggi credo che sia pronta a ricoprire il ruolo di sindaca più di quando era in ballottaggio con me, nel 2014. C’è molto lavoro da completare
Mi sembra abbastanza solo: parlare di “disastri” significa essere distanti dal sentire della città. Temo che smonterebbe parte del nostro lavoro
❞ Cose da finire
Il 30 maggio inauguriamo il giardino della Carrara, unica opera non compiuta durante l’anno da Capitale italiana della Cultura
rare? Essere solo l’espressione di alcuni valori, di alcuni “no” alla destra o di alcuni diritti che si rivendicano secondo me non basta».
Un documentario di Netflix recente, «Il giovane Berlusconi», parla di una storia che è poi anche la sua, l’esplosione della tv commerciale. Quanto ancora quella parabola incide sulla politica italiana di oggi?
«Non l’ho visto, ma mi incuriosisce. Credevo si parlasse di un Berlusconi giovane e invece mi dicono che sia proprio sugli anni ‘80 e ‘90. E lì c’ero anche io. Chi lavorava con lui in quegli anni mai avrebbe scommesso che si sarebbe buttato in politica da protagonista. Lo fece per necessità, perché era rimasto senza riferimenti dopo la fine del pentapartito, non per vocazione. Una volta entratoci, si accorse che la sua storia da self made man poteva funzionare se raccontata agli elettori. Ma la politica era lontana in quegli anni non era all’orizzonte, fino al 1992 neanche avevamo i telegiornali. Certamente, comunque, il centrodestra italiano ha un enorme debito di riconoscenza verso Berlusconi».
Berlusconi non c’è più, oggi Giorgia Meloni sembra godere di una luna di miele interminabile con l’elettorato italiano. «Quello italiano, specie del centrodestra, è
un elettorato molto tollerante rispetto alle promesse mancate. Ho scritto personalmente, sul mio computer, i programmi elettorali da sindaco nel 2014 e nel 2019 e mai mi sarei sognato di scriverci una cosa che non ero sicuro di poter mantenere».
In città, teme che se vincesse Pezzotta smonterebbe parte di ciò che avete fatto?
«Sì, mi viene da pensarlo di fronte a un Andrea Pezzotta che, dopo essere partito riconoscendo la bontà del nostro lavoro, ora parla di ”disastri”. Io alle Regionali mi presentai con lo slogan “fare meglio”, non mi sembrava realistico parlare di una Lombardia governata male, all’epoca di Roberto Maroni. Però parlare di disastro, in città, significa essere un po’ lontani dal sentire comune della maggior parte dei cittadini. La mia sensazione è che il sostegno a questa amministrazione sia oggi ancor più esteso di cinque anni fa».
Pensa che quella di Pezzotta sia una scelta tattica, di comunicazione elettorale?
«Ha radicalizzato la sua posizione, lui è una persona estremamente rispettabile ma credo che rappresenti un pezzo di città che non ha mai digerito la sconfitta del 2014 e che per questo non disdegnerebbe l’idea di tornare indietro
di in 15 fondo anni. per È il motivo aiutare per Elena cui mi Carnevali impegnerò a essere fino eletta». Nel 2014 Carnevali avrebbe potuto essere la candidata che oggi sia sindaca più pronta del Pd, per al il suo ruolo? posto. Crede
me «Credo in città di ed sì, era all’epoca più fresca lei era di competenze più popolare amministrative. di mi aspetto Ma che oggi abbia è una la capacità candidata di prendere più solida, decisioni sapendo che questo comporta difficoltà, anche scontentare qualcuno. Ha una grande facilità di relazione con le persone, una forte empatia, e questo è importantissimo».
Qual è l’obiettivo che deve darsi la città per i prossimi cinque anni?
«Ci sono moltissime cose da fare, ad esempio il percorso verso l’abbattimento delle emissioni è solo all’inizio. E anche per questo ritengo che non sarà per nulla la stessa cosa, per Bergamo, se a vincere sarà Elena Carnevali o il suo avversario. Pezzotta non riesco neanche a immaginare che tipo di squadra potrebbe allestire e lo vedo abbastanza solo, come testimoniano alcune sue uscite. La nostra candidata sindaca invece può affrontare i temi sulla base del know how costruito in dieci anni di amministrazione».
Poi ci sono cose molto pratiche da realizzare, come Porta Sud.
«Entro la fine del mandato puntiamo a firmare un protocollo con il gruppo Vitali, che ha in capo la parte privata del progetto, necessaria per trainare il recupero dello scalo ferroviario. Mentre il progetto di trasferire il polo scolastico è tramontato perché il ministero dell’Istruzione ci ha chiarito di non avere le risorse per finanziarlo».
In più di 10 anni avrà speso su per giù un milione di euro in campagne elettorali.
«Ma che domanda è? — risata — Io non faccio i conti in tasca a lei».
Certo, ma il problema è che la politica a certi livelli oggi la fa chi se lo può permettere. Non c’è qualcosa di sbagliato in questo?
«Sì, questo è un tema. Io fui tra i sostenitori dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e oggi credo che sia stata una grande stupidaggine. In questo modo si privilegia chi è legato a finanziatori con grandi interessi oppure chi, come me, ha disponibilità economiche proprie. Anche perché i partiti, almeno il nostro, non contribuiscono più con un euro alle campagne elettorali dei singoli».
Dopo 10 anni di orizzonte bergamasco, con l’ufficio a poche centinaia di metri da casa, non ha la preoccupazione di quanto risentiranno le abitudini personali e familiari, in caso di elezione?
«Ciò che mi preoccupa di più in effetti è questo, adattare alla nuova situazione. Anche perché passare da un ruolo operativo, in cui si possono vedere i risultati del proprio lavoro a distanza ravvicinata, a essere parte di una grande assemblea di mille persone è un cambiamento importante. Però chi ha fatto sia il parlamentare a Roma che l’eurodeputato, come Pia Locatelli, mi ha detto che senza dubbio l’esperienza in Europa è la più stimolante».
Più volte in effetti si erano ipotizzate sue candidature a Roma: perché è il momento di tentare con il Parlamento Europeo?
cui «Perché nei prossimi credo anni che quella accadranno sia la dimensione le cose decisive in per se il so nostro che non futuro. sarà Vale facile. la pena Ci sono provarci, tanti candidati anche sostegno forti di nel tanti Pd. elettori, Ma so che in tanti posso territori, contare che sul riconoscono Bergamo». il lavoro fatto in questi anni qui, a
Carnevali Pezzotta