Pierca, maniacale, colta, riservata La sua pittura fu definita «virile»
Non usava i cavalletti: nel suo studio-salotto di corso Magenta, in cui entravano e uscivano Vedova, Birolli e Morlotti, la signora dell’astrattismo metteva la tela sul tavolo. Un critico della provincia di Brescia, tornando da una sua mostra, l’ha definita virile: Pierca (Pier Carla Reghenzi, 1921-2010) piuttosto era maniacale, colta, riservatissima. Non ha mai detto a nessuno che tecnica usasse. «Quando dipingo non odo; mi ascolto totalmente per potermi dedicare a quell’urgenza di esternare partecipazioni vissute, prigioniere del mio sentire». Prima che nella tavolozza, scavava nei ricordi: la corrida in Spagna, i viaggi a Parigi ogni due mesi, i grigi e i blu. Il pubblico doveva adeguarsi: «L’osservatore deve sforzarsi di assomigliarmi all’interno di ogni composizione». Ogni suo lavoro, persino i quadri figurativi abbandonati in pochi anni, nasce da un tormento: il suo astrattismo si nutre di ritmi interiori, più che di geometrie. Una decina di opere della pittrice sono esposte allo Spazio Aref, in piazza Loggia, fino al 21 febbraio: Roberto Ferrari, amico di Pierca, ha portato in galleria i quadri dipinti dagli anni Cinquanta ai Settanta per la seconda personale dedicata all’artista (è morta quasi sei anni fa tornando dalla vernice di una mostra dedicata al marito, Enrico Ragni). Sono geografie interiori: memorie che affiorano con l’uso ruvido del colore, forme in divenire e lacerate dagli spasmi e dal peso dell’esistenza. Per guardarle, bisogna seguire le sue istruzioni: cercare di assomigliare all’amazzone dell’arte astratta, anche se la sua città ancora non l’ha capita.