OSPITALITÀ E BUONE PRATICHE
Primo: non generalizzare. Secondo: non cedere alla tentazione contraria, quella di catalogare gli abusi di Chiari come una delle tante violenze di genere di cui è piena la cronaca. La magistratura chiarirà come sono andate le cose lunedì sera fra i cespugli del Parco delle Rogge, ma a prescindere dalle conclusioni giudiziarie l’episodio deve suonare come un campanello d’allarme da non sottovalutare. Ci interroga su un tema che nelle difficoltà di gestire un’emergenza sempre più pressante sembra passato in secondo piano: la qualità dell’accoglienza. Non basta dare un tetto, un pasto caldo, un pocket money e nozioni di italiano: bisogna costruire percorsi di integrazione reali che sappiano educare e far uscire i giovani richiedenti asilo dall’isolamento. Bisogna ridurre al minimo i rischi che un’accoglienza distratta finisca solo per fornire braccia fresche alla criminalità. Si sa che i criteri dell’accoglienza non sono uniformi: le sensibilità del terzo settore sono diverse da quelle dell’albergatore e anche nel mondo della cooperazione ci sono esperienze qualitativamente molto diverse tra loro. Uniformare le «buone pratiche» dell’accoglienza potrebbe essere il passo necessario per evitare condotte borderline e togliere benzina a chi non attende altro che alimentare il fuoco della paura. Preoccupazioni che si vincono con la condivisione delle responsabilità e degli obiettivi. Proprio per questo parlare con le comunità e con chi le amministra è diventato, oggi più che mai, un passo indispensabile.