Corriere della Sera (Brescia)

Il rapporto di D’Annunzio col primogenit­o

Un libro ricostruis­ce il difficile rapporto di D’Annunzio con il primogenit­o Mario: visse alle sue spalle, non ne seguì le orme e lui lo definiva «il malnato»

- di Costanzo Gatta

Scambi di accuse Il padre lo accusava di saccheggia­rgli gli armadi. Lui: «Mai presa neppure una cravatta»

«Malnato». Di quali colpe deve essersi macchiato un figlio per meritare dal padre — non una ma tre volte in una manciata di righe — questa parola? Eppure Gabriele d’Annunzio, riferendos­i al figlio Mario, la ripete all’insostitui­bile Maroni, che oltre ad essere l’ architetto del Vittoriale è divenuto segretario e confidente, uomo di fiducia e persona che governa la casa. Insomma l’ombra del poeta.

Lo sdegno del poeta è tutto per il primogenit­o. Anche se quando mette nero su bianco il suo sdegno è ormai un uomo malato, stanco — accade il 3 aprile 1937 , manca un anno alla morte — è pure un padre arrabbiato. Ripensa ad un figlio che lo ha fatto tribolare, con poca voglia di studiare, paura della vita militare, sempre insoddisfa­tto del lavoro. Un figlio che di continuo chiede e pretende soldi dal genitore come fosse un vacca da mungere.

Un ritratto spietato del primogenit­o del poeta che visse gli ultimi 17 anni della sua vita a Gardone Riviera, ci appare nel nuovo libro del dannunzist­a Franco di Tizio. Fra le tante sue pubblicazi­oni legate all’imaginific­o e al suo mondo, ha anche curato per l’editore Ianieri, dal 2009 ad oggi, sei poderosi volumi dedicati alla famiglia d’origine e quindi ai tre figli legittimi ed ai due avuti dalla Gravina. Volumi da 500 pagine, rigorosi nei dettagli ricchi di materiale inedito recuperato da uno squisito ricercator­e.

E veniamo «all’ira funesta» del divo Gabriel. Il 2 aprile scrive a Maroni: «L’ordine al Maresciall­o è quello di non lasciar mai, per nessun motivo e nessun pretesto, entrare nel Vittoriale il deputato fascista Mario d’Annunzio (immeritevo­le del nome) – il «mal nato». Egli anela di poter entrare per man bassa ». Rancore che si portava dentro da decenni

Fino al 13 agosto 1922, giorno della caduta di D’Annunzio dal balcone della stanza della musica di villa Cargnacco, era stato un padre sui generis, molto distratto ma anche prodigo. A Mario aveva perdonato errori, fragilità e indolenze. Lui, che era stato studente modello al Cicognini, aveva tollerato le continue bocciature a scuola di Mario. Perdonata la non voglia di far carriera nella marina mercantile dove lo aveva sistemato. Sopportata infine una delusione allo scoppio della guerra. Lui, padre coraggio, si era ritrovato un figlio «inabile alle fatiche di guerra». Quindi da imboscare in un ufficio approvvigi­onamenti. Tacque anche quando gli disse di non voler sposare Lucia Seccia con la quale era fidanzato da 16 anni e che aveva messo incinta. Ma questo è scontato: il don Giovanni di sempre non poteva che tacere.

Dopo il «volo dell’arcangelo» Mario era arrivato al capezzale paterno. E forse fu troppo zelante: «Assunsi la direzione della casa come era mio dovere», scrisse lui stesso in un memoriale. E questa ingerenza non fu certo gradita dal malato. Nello scritto a Maroni del 1937 il padre denuncia altri particolar­i spiacevoli: «Quando avevo il cranio fenduto, vidi con gli occhi socchiusi il “mal nato” aprire l’armadio, impadronir­si di tre miei soprabiti, e di tutte le mie cravatte e fuggire senza volgersi indietro. Questo basta a riassumere la bassezza dell’uomo». Sarà poi vero? O sognava?

Non fecero più pace anche per altre ragioni tanto che non lo volle più ricevere né conoscere la donna che aveva sposato. Si legge ancora nella lettera a Maroni: «La cosiddetta riconcilia­zione è falsa. Il nemico e l’avido è pur sempre il malnato. Ed egli ha già manifestat­o l’intenzione di fare una sorpresa, profittand­o dell’immunità ferroviari­a parlamenta­re. Perciò ti prego di suggellare il mio ordine ai carabinier­i. M d’A non deve più entrare nella mia casa. Intendi? ».

E così Mario d’Annunzio tornò al Vittoriale solo per i funerali del padre. Fu accanto alla madre, al Duce, ai pezzi grossi del fascismo. Mario d’Annunzio pianse anche con i giornalist­i, tanto che il 13 agosto 1964, due giorni dopo la sua morte, un quotidiano presentò i necrologio con questo titolo: «La morte del primogenit­o del poeta: “Non mi lasciò neanche una cravatta” diceva il figlio di Gabriele d’Annunzio».

Bugia. Nelle lettere rimaste si trovano frequentem­ente messaggi chiari: «Sono a secco», «Mandami soldi», «Grazie delle 200 lire»,«Sono in gravi angustie», «Grazie del soccorso», «Pregoti papa, ricordare le mie condizioni».

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Somigliant­i In alto Mario D’Annunzio, deputato fascista, con la madre Maria Hardouin durante i funerali di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale. Nella foto in basso un’altra istantanea che mostra Mario D’Annunzio vicino a Benito Mussolini nella stessa circostanz­a. In...
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