I fabbri di Bill Gates
Alcuni artisti amano stare dentro il mondo: ne percepiscono voci, intermittenze, sussulti. Altri preferiscono vivere geografie diverse: in un’officina a Caldes, nella Val di Sole, impregnata dall’odore del ferro e con le foglie di magnolia scolpite alle pareti. «Ma noi non siamo artisti. Siamo fabbri» dice Ivan Zanoni.
L’insostenibile leggerezza del ferro: lui, suo padre Luciano e il loro bestiario scolpito sono all’Arsenale di Iseo, per il Festival dei laghi. Vigne, ulivi,
Due generazioni Il padre Luciano fu scoperto da Testori, il figlio Ivan ne segue le orme in officina
anatre e uccellini. Nel cortile, a dividere la testa di un leone da quella di un elefante, un canneto. Sullo sfondo, una sinfonia di rumori: martelli che cadono, pinze, tenaglie, il ferro battuto, il maglio. «La nostra musica». La vernice di “Bottega Zanoni” è sabato alle 18 (la cura Marcella Mattivi; fino al 23 luglio).
Suo padre è stato scoperto da un Testori che fu il primo a organizzargli una mostra, a Milano. Era il 1979. Lo descriveva «duro e commovente, semplicissimo e possente».
«Io ero un bambino, e lui non voleva assolutamente farle una mostra, non si è mai sentito un artista. Appena ha visto le sue mele e le sue pere in officina, però, Testori ha insistito e non ha mollato. Ricordo mio padre che gli dava del pazzo».
Un giorno, era il 1996, chiamò monsieur Varnier, il vostro gallerista di rue des Beaux Arts, Parigi. Bill Gates voleva un ulivo per la sua fondazione di Seattle.
«L’architetto di Gates, Thierry Despont, aveva visto le nostre sculture in galleria e voleva assolutamente che facessimo un ulivo. Varnier ci chiamò, ma senza dirci chi fosse il committente. Papà continuava a rifiutare: non era il suo albero, non lo conosceva. Il gallerista fu costretto a prendere l’aereo e venire in officina con le bozze del progetto. Le lasciò sul tavolo e disse: “Pensateci”. È stato a quel punto che abbiamo visto il nome di Gates scritto sulle carte, ma non sapevamo chi fosse. Alla fine ci ha convinti un nostro amico giornalista, Gianni Faustini: Luciano — gli disse — devi farlo assolutamente, questo è uno importante. L’albero che non voleva fare, poi, è diventato il preferito di mio padre. Perché l’ulivo sopravvive a tutto».
Sopracciglia arricciate e capello indomabile, Jean Claire, il bulimico storico francese, restava appoggiato sulla porta dell’officina per almeno un’ora e mezza al giorno. Guardava suo padre, e le sue mele di ferro.
«Non diceva una parola. Affiorava all’improvviso, dal nulla, e restava immobile: è stato il primo ad intuire l’indole d’artista di papà. Forse perché anche Jean Claire ha origini contadine: nonostante viva a Parigi, viene dalla campagna come noi».
Con Antonio Stagnoli e le sue incisioni c’erano affinità elettive: avete fatto due mostre. La natura scolpita nel ferro e grumi di colore sulla carta. Che ricordi ha?
«Si esprimeva attraverso la dolcezza. Lui che negli ultimi anni non vedeva e non sentiva, toccava le cose come fossero tutte morbide. Mi infondeva una calma incredibile».
Lei è un «figlio di». Ha respirato l’odore del carbone da bambino. Non dev’essere facile lavorare con suo padre.
«Sono partito avvantaggiato: conosco già l’ambiente, le persone, la tecnica. Ma ho sempre avuto davanti a me un paracarro, una figura ingombrante. Per questo ho deciso di cambiare soggetto, abbandonare o quasi la natura e scolpire gli animali. Lui è più sanguigno. Io, che ho studiato oreficeria, più cervellotico. I miei lavori sono armature leggere, i suoi sono più massicci. Ma restiamo entrambi fabbri».
La scelta di Seattle Il fondatore della Microsoft voleva un ulivo: a noi il nome Gates non diceva nulla
Mestiere Mio padre è sanguigno, io sono più cervellotico, entrambi restiamo soprattutto fabbri