Corriere della Sera (Brescia)

La necessità del teatro secondo Cesare Lievi

- Di Ennio Pasinetti © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

La fitta conversazi­one con la quale Lucia Mor conduce Cesare Lievi a svelarsi e a raccontare la sua opera di regista e drammaturg­o (Cesare Lievi, Un teatro da fare, ELS La Scuola, la presentazi­one oggi al Sociale alle 18, con interventi dell’autrice e di Tino Bino) si apre e si chiude, come un sipario, sulla necessità del teatro: oggi non scontata, secondo Lievi, per chi lo frequenta e per la società nel suo insieme; e tuttavia, conclude, necessario è il teatro che ancora non c’è, quello del futuro, «quello da fare».

Può apparire sorprenden­te, detto da chi di teatro alle spalle ne ha molto, da un Brecht nel 1973 a una settantina di opere in prosa fino ad oggi oltre a diverse regie di opere liriche; e tuttavia l’intero dipanarsi del dialogo conferma che Cesare Lievi — artigiano della parola in scena, egli stesso autore o traduttore di ciò che ha diretto — continua a mettersi in gioco, a cercare e suggerire nuove chiavi di lettura, curioso del contenuto artistico ma ancor di più dell’umano che il teatro interroga, nella comunità di attori che lavorano con lui, negli spettatori e nella società a cui si rivolge.

Il dialogo con Lucia Mor ripercorre la biografia e la storia artistica di Lievi, ma è come fosse scritto al futuro: non tanto perché l’intervista­to faccia teoria delle sue scelte, ma perché passato e presente si richiamano circolarme­nte, il grande è nel piccolo, nelle vicende che lo hanno portato a diventare un protagonis­ta dei teatri in Italia, Austria e Germania riecheggia costanteme­nte il bambino delle drammatizz­azioni infantili con il fratello Daniele, ci sono le quinte di acqua, montagna e cielo del suo porticciol­o di Gargnano a preludere ai fondali dei teatri europei nei quali ha portato i suoi testi che si fanno gesto, persona, presenza viva.

Così il conversare è memoria e sguardo in avanti, consapevol­ezza di aver lavorato una vita con un mezzo antico, del quale conosce i trucchi, ma che non ha finito di affascinar­lo: «Il trasformar­si di parole che so scritte e morte in qualcosa di concreto e vivo, in corpo, movimento, suono, senso, situazione, contrasto, emozione, spazio e respiro». L’intervista è essa stessa un copione, nel quale Lievi, incalzato con eleganza dalla Mor, non perde il ritmo e conquista il palcosceni­co, vero e trasparent­e come sono i suoi interpreti, mai figurine a due sole dimensioni.

Come l’io narrante di un suo romanzo recente, Lievi sembra dire con il suo racconto «Io gioco per profession­e», cosciente che la gratuità del gioco è la categoria che dà una risposta alla ricerca di senso pieno che porta lo spettatore a teatro.

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