Danza, i detenuti sul palcoscenico con Giulia Gussago
Giulia Gussago stasera al teatro Sociale per lo spettacolo con i carcerati
«È vero, la danza contemporanea, come l’arte contemporanea, spesso non è semplice da interpretare. Ma la danza è un linguaggio non verbale e proprio per questo varca tutte le soglie». E nel caso di Giulia Gussago, direttrice della Compagnia Lyria, il suo «Progetto Verziano» varca le soglie del carcere ormai da sei anni.
Perché sceglie la danza, per lavorare con i carcerati?
«La danza è la mia vita, la uso per conoscere il mondo e per comunicare. Ma la danza è in grado di coinvolgere tutto: l’aspetto fisico, emotivo, mentale. Ecco perché usiamo la danza. Il livello tecnico non è ciò che mi interessa, io credo che la danza permetta di ristabilire delle relazioni».
E chi vive in carcere ne ha bisogno
«Il carcere è un non tempo. E questo percorso mira a far sì che il detenuto, quando uscirà, possa adeguarsi ad un ritmo di relazioni che in carcere sembrano sospese. Invece c’è bisogno di ricordare, di condividere certi vissuti, di pensare. La danza permette di vivere delle esperienze. E di ristabilire delle relazioni».
Stasera, al Teatro sociale di Brescia, va in scena il vostro spettacolo, «Circostanze». Come sarà?
«Guardi, lo spettacolo a suo modo è marginale. La fase più importante è il processo dei mesi scorsi, il lavoro con i detenuti. Molti all’inizio vengono perché credono di poter fare un po’ di ginnastica, poi scoprono che è diverso. Io portavo dei testi di Calvino, ma anche delle poesie per bambini. Mi serviva qualcosa che fosse utile per interrogarsi. Così potevo capire la sensibilità di ognuno».
Quindi lo spettacolo viene costruito in base a ciò che i carcerati-danzatori portano sulla scena?
«Ho chiesto loro di esprimermi ciò che i testi gli suggerivano. Partendo dall’idea della casa disabitata, ognuno doveva “riempire” una stanza con i propri pensieri. Ad esempio, l’idea del viaggio, il silenzio, la bellezza. Per tanti di noi il viaggio è un progetto di vacanza, che ci sta davanti. Per chi è arrivato in Italia attraversando il deserto, il viaggio è un ripercorrere qualcosa che sta alle spalle, doloroso. Su cui abbiamo lavorato. Il viaggio è un tema che verrà portato in scena, più con gesti e passi di danza che con le parole».
Quindi, la danza come forma di elaborazione?
«Volevo farli riflettere positivamente. È importante che un detenuto, anche se è finito in carcere, non pensi che per questo diventerà in automatico un relitto della società. Dobbiamo restituire dignità a queste persone. Per farlo, il teatro è utile perché rappresenta un luogo della magia. Quando calano le luci, tutto è possibile».
Questo progetto gode di fondi ministeriali, giusto?
«Sì, ma quest’anno sono diminuiti molto. Perciò non abbiamo coperto tutte le spese. Ecco perché abbiamo lanciato una raccolta fondi sul sito produzionidalbasso.com».
Perché lo spettacolo si chiama «Circostanze»?
«Perché la casa disabitata, che abbiamo immaginato, è fatta di circo-stanze. Che la danza prova a rappresentare. Spesso dimentichiamo che i nostri corpi trattengono informazioni, parlano del nostro vissuto. E noi, nei mesi passati, abbiamo cercato di riaccendere questa memoria. Trasformando in atto creativo anche le tragedie passate. Così si aiuta la singola persona a recuperare consapevolezza di sé e della società dove tornerà».
Ecco, forse questo prologo andrebbe spiegato agli spettatori.
«Ci penso spesso, mi creda. E forse dovrei farlo. Ma servirebbe un incontro a parte o un convegno, è difficile spiegarlo la sera dello spettacolo. Il palcoscenico è il luogo dove i corpi parlano. È un momento del sentire, non della logica. È difficile guardarlo con occhi razionali».
Lei è una danzatrice professionista, si è formata a Londra, Parigi e Milano. Come nasce l’intuizione che si possa danzare con disabili e con i carcerati?
«Quando mi presero alla London Contemporary Dance School, trent’anni fa, fu la prima volta che vidi un progetto di danza con persone disabili: per me era inconcepibile, all’epoca rimasi molto scossa. Ma poi ho imparato che la danza non è prerogativa di chi ha un corpo perfetto o di chi è un professionista: la danza è espressione, chiunque può farlo. Anche se muove solo un braccio. L’emozione è negli occhi di chi guarda».