«La mia Armenia» di Tigran Hamasyan
«Ecco le storie legate alla mia gente». Domani al Vittoriale
Èun viaggio al pianoforte che crea un ponte tra la cultura del suo Paese, l’Armenia, e quella dell’Occidente, l’ultimo disco di Tigran Hamasyan. Il pluripremiato pianista lo presenterà dal vivo domani al Vittoriale (al Laghetto delle Danze, via Vittoriale 12, Gardone Riviera, ore 21, 20 euro). L’album s’intitola «An Ancient Observer», perché, spiega il 30enne Hamasyan, «è nato dall’arte dell’osservazione, che è alla base di ogni cosa». E aggiunge: «Un’arte che l’umanità ha sviluppato nel corso dei secoli e che per questo disco mi ha portato, in particolare, a indagare il rapporto tra la natura e le conquiste dell’uomo e il modo in cui quel rapporto si è trasformato con il trascorrere del tempo. Il risultato sono composizioni che narrano storie legate a epoche differenti». Per esempio? «Un brano, “Leninagone”, parla del forte terremoto che il 7 dicembre del 1988 colpì la mia città natale, Gyumri, e del collasso dell’Unione Sovietica che sarebbe avvenuto pochi anni dopo, nel 1991. O ancora, “Nairian Odyssey” è dedicato a Yeghishe Charents, poeta armeno ucciso dai sovietici nel 1937. Non amo unire musica e politica, ma credo nel mio popolo e spero che un giorno in Armenia i politici baderanno più alla gente e al suo futuro che ai soldi».
Con le sue composizioni tra classica e jazz porta anche avanti, rimaneggiandola, la tradizione della musica popolare armena.
«Sì, ed è una tradizione variegata: si va dalle musiche da matrimonio a quelle dedicate alla lamentazione, passando per un ampio repertorio di ninne nanne, per arrivare alle composizioni epiche con cui i troubadour rendevano omaggio gli eroi e ai canti di lavoro, intonati dai contadini mentre raccoglievano il grano».
Quanto spazio lascia all’improvvisazione?
«Sono un musicista jazz, vivo di improvvisazione. Le mie composizioni presentano, da un lato, una struttura classica, dall’altro, sia al momento della registrazione sia durante i concerti, si aprono all’improvvisazione in quanto pratica che mi permette di sviluppare idee per nuovi brani».
Quando ha iniziato a suonare il piano?
«I primi tentativi risalgono a quando avevo tre anni: in casa avevamo un pianoforte e un altro ce l’aveva mio nonno, ci giocavo. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: mio padre adorava il rock e avevo uno zio che amava il funk e il jazz, io ascoltavo e assimilavo. Fu così che a un certo punto iniziai a provare a suonare pezzi dei Led Zeppelin e di Herbie Hancock, a orecchio».
Questo in Armenia. Poi, a 16 anni, nel 2003, si trasferì con la sua famiglia a Los Angeles: come fu l’impatto?
«Uno choc, ma negli Stati Uniti ho avuto l’opportunità di suonare con musicisti incredibili, in Armenia non sarebbe stato possibile, c’erano pochi musicisti all’epoca».
Come mai quattro anni fa è tornato a vivere in Armenia?
«Per ragioni personali e per riconnettermi con la mia terra e ricaricare le batterie. Mi mancavano l’approccio spirituale alla vita che abbiamo nel mio Paese, le nostre tradizioni, il modo in cui viviamo la famiglia e la religione. A Erevan, dove vivo, posso uscire di casa e in 10 minuti di auto ritrovarmi in un antico monastero tra le montagne. A Los Angeles mi sembra tutto artificiale».