KAPOOR, LA SFIDA DI SAPER OSARE
Non conosco i dettagli. Non posso quindi esprimere giudizi sulla decisione del sindaco di sospendere l’incarico ad uno dei più grandi artisti contemporanei, sir Anish Kapoor per una collaborazione sull’allestimento della Pinacoteca Tosio Martinengo, prossima, si dice, alla riapertura dopo anni di porte chiuse. Non so nemmeno se sono giustificati gli allarmismi delle opposizioni circa un possibile conflitto di interessi fra il presidente di Brescia Musei, Massimo Minini e l’artista britannico con il quale ha avuto rapporti commerciali. Non giudico quindi i comportamenti della politica che ha logiche proprie, quasi sempre autoreferenziali per quanto legittime. So invece che Brescia ha perso una occasione quasi storica per utilizzare una delle menti creative del nostro tempo, il cui segno avrebbe lasciato in ogni caso una traccia che i cultori di arte di ogni parte del mondo avrebbero inseguito e cercato di conoscere. Ho visto le opere di Anish Kapoor in molti luoghi pubblici. Ricordo la sua fantasiosa installazione nel grande spazio di ingresso della nuova Tate Gallery a Londra, sul Tamigi. E so che le identità delle città si consolidano con un gesto, con una scelta che sfida convenzioni, logiche amministrative, interessi politici. So soprattutto che senza osare, senza sfidare il mondo, una città rischia di ridiventare provincia. La provincia è questo: un luogo che non è brutto, che è ben servito, dove si vive in pace perché la provincia non osa, non disturba. Una terra di mezzo, non lontana dai luoghi dove si fa la storia, ma distante dalle grandi idee che disegnano il futuro. Colta si, ma in tono minore, priva delle brutture periferiche, poco sorridente e nemmeno triste, una saggezza nostrana, quel buon senso che non lascia spazi, sempre misurata , contenuta e magari bene amministrata. Ma che abusa del grigiore e se ne lascia avvolgere come un telo di ragnatela . Così il futuro si subisce. E la storia che passa da lì resta prosaica, vuota. Il provincialismo non è nella storia di Brescia, dove hanno trovato spazio i sogni, le ambizioni, le voglie di primato e di innovazione. E di sfida. In ogni occasione di crescita, anche culturale, la città ha osato turbare l’universo e se stessa. Ricordo gli anni Settanta e il teatro d’avanguardia (living Theatre per esemplificare), che Renato Borsoni faceva ospitare in città fra lacerazioni, scontri culturali, disagi autentici e proteste strumentali. Per quei gesti molte volte la politica chiese la testa di Borsoni. Ma la città sapeva che la cultura deve avere non solo le mani libere, ma le menti aperte. Che occorre rischiare, perché è dalla innovazione culturale che nasce lo stimolo al nuovo nell’intera e complessa dimensione della vita collettiva.