Corriere della Sera (Brescia)

Le «Carte nomadi» di Marco Tancredi approdano a Nervi

- Nino Dolfo

Il paradosso è il suo mestiere: è un pittore che non ama mettersi in mostra. Marco Tancredi, riservatez­za made in Brescia, confessa la sua disapparte­nenza a scuole, chiese e cricche della critica. Da quarant’anni si è votato ad una ricerca tenace su segni e colori, fuori dai radar, anche se le esposizion­i non mancano nel suo curriculum. Di assoluto prestigio l’ultima, a Genova Nervi. Tancredi, nativo analogico, lavora nell’apnea del suo studio, dove il tempo si è fermato, a corpo a cuore con se stesso, con strumenti artigianal­i e materiali poveri: forbici, carte, colla, pennelli e colori. I colori rappresent­ano l’energia poetica della creatività insieme alla carta, polpa del legno e medium millenario, che lui reperisce in negozi o in mercatini fuori mano. Carte preziose e fatte a mano, amalfitane o giapponesi in primis, ma anche vintage, recuperate in cantine e solai, su cui sono impressi grafemi, singulti glottologi­ci, reliquie di discorsi perduti, che lui estrapola ricicla e impiastra, inventando nuove sintassi sentimenta­li e cromatiche. Ma anche cartoline, documenti, fotografie scannerizz­ate fanno parte del suo armamentar­io e vengono inserite in patchwork dalle geometrie fitte e dalle tinte squillanti. Tancredi non si concentra su un’opera-monotipo, concepisce le sue opere per cicli (Labirinti,

Orizzonti…). «Solitament­e faccio campiture grandi, prima elaboro gli schizzi — ci dice — poi uso i frammenti, che accumulo e sovrappong­o. Mi piace l’incollaggi­o, il collage. Ho iniziato con il figurativo (ritratti, nudi, a china o a carboncino), ma ho capito che non era quella la mia strada, finché il

mood non ha trovato il suo stile e il suo linguaggio». Cinque anni fa, per i suoi 60 anni, Tancredi ha dipinto e esposto in una galleria milanese 59 quadri personaliz­zati per gli amici, in cui ognuno ha ritrovato una citazione letteraria legata alla propria data di nascita e guarnita di riferiment­i simbolici. «Dipingo storie visive, recupero quel patrimonio latente di vissuto ed emozioni che ch’è in ogni persona», ci confida Tancredi. Cavellini docet? «L’ho conosciuto, ma nella mia formazione è stato più importante Bruno Munari. Mi ha insegnato che il gioco della creatività è una cosa seria».

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