Don Agostino e i tormenti di un uomo di Dio
Nella non sterminata galleria di personaggi religiosi in letteratura (dall’arguto padre Brown di Chesterton al tormentato parroco di Ambricourt di Bernanos, dal pavido don Abbondio all’integerrimo fra Cristoforo usciti dalla penna del Manzoni) entra a vele spiegate il don Agostino cesellato da Alessandro Bianchi — scrittore e docente bresciano — nel suo terzo romanzo, denso e profondo: «L’esilio dell’amore» (Com&Print Editore, pagine 116, euro 13,50). La vicenda di don Agostino, che Bianchi assicura essere mutuata da una storia vera incontrata nei recessi storici del manicomio di Volterra, è contrassegnata da una vocazione infantile, dai sogni giovanili di una vita dedita a Dio e al prossimo, da un inciampo teneramente sentimentale nei primi anni di ministero, da due anni di rinascita spirituale in un monastero benedettino, da un crollo psichico e blasfemo nella maturità, fino a una sorta di eremitaggio consapevolmente accettato in una parrocchia dell’Appennino di 35 persone e tre soli fedeli. Un viaggio all’inferno (del manicomio) e ritorno scandito da una continua interrogazione sul senso del proprio essere uomo di Dio. Il nome del sacerdote non è casuale: nel santo di Ippona il prete di Bianchi si identifica per i tormenti dell’anima, l’anelito a Dio, la richiesta di una pace che plachi le tempeste spirituali e morali. Gli incontri di don Agostino con le gerarchie e le strutture ecclesiastiche sono deludenti, aridi e scoraggianti; quelli con alcuni malati terminali che si trova ad assistere sono brucianti, memorabili per i dialoghi estremi e sapienziali che ne derivano. Il bilancio finale è amaro: «Ho passato la mia vita alla ricerca della felicità e cercando di donarla agli altri, ma ho spesso fallito clamorosamente. È stato un donare senza ricevere ma soprattutto è stato un continuo sperare di ricevere», confessa il sacerdote. A disilludere don Agostino, il cui calvario conosce persino l’elettroshock, concorrono i maestri che «indossano una maschera di falsa credibilità». Più che da mistiche accensioni, l’essere prete del personaggio di Bianchi è definito attraverso la costruzione di relazioni: «Ho dato a Dio la mia vita, non perché fosse sua, ma perché fosse di tutti». Il risultato? «Ho amato il prossimo più di me stesso, perdendo cognizione del mio io». Nelle pagine di Bianchi si rispecchia il tormento di un uomo di fede, il dramma di uno spirito lacerato fra obbedienza e autenticità, che solo nella dimensione comunitaria trova uno spazio di verità. Alla fine il diario introspettivo di don Agostino, scritto da Bianchi in prima persona, lascia un dubbio: che il dramma del sacerdote — in bilico fra l’Altro e gli altri — , più che la crisi di tanti uomini di fede rispecchi in realtà il tormento dell’uomo contemporaneo. Cioè di tutti noi.