Una giornata di caos in stazione con i treni bloccati
Stanchezza e rabbia per la lunga attesa, ma soprattutto dolore per chi era sul treno della morte. A centinaia in stazione ieri mattina ad attendere che la circolazione riprendesse, a tre ore dal disastro i primi pullman sostitutivi.
Il pensiero fisso, che ti ronza come una costante di cadenza fra le pareti della corteccia cerebrale è ovviamente che potevo esserci io su quel treno. Io, uno degli oltre 700 mila pendolari lombardi che ogni maledetta mattina si alza dal letto e, mentre si prepara un caffè, manda una piccola prece, distratta ma non troppo, a san Cristoforo — il patrono dei ferrovieri — affinché il proprio treno arrivi puntuale sul solito binario, quella striscia gialla quotidiana che ti separa dalla grande città, dal lavoro e dalla tua scrivania. Vent’anni, con qualche pausa, è vero. Era il 1998 quando è iniziata la mia odissea pendolare: l’università, poi il master, i primi lavori da freelance, uno stacco bresciano di un paio d’anni, e poi di nuovo: destinazione Stazione Centrale: Chiari, Romano, Treviglio, Pioltello-Limito, Milano Lambrate, il telefono in mano a controllare l’ora, ché ho un appuntamento. Ogni maledetta mattina, appunto. Come ieri mattina. Chiari, stazione di Chiari, le 7 e 43 in punto. Solo che ieri c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di grosso. Non i soliti ritardi a cui noi pendolari seriali siamo oramai abituati. Tristemente e anche con crescente rassegnazione. Perché dopo un po’ che fai commuting ci fai il callo a startene lì, a debita distanza dalla linea gialla disegnata sull’asfalto screpolato, ad aspettare. Apri l’app di Trenord, poi attendi una comunicazione. Poi apri di nuovo l’app. Infine ti sporgi sulla linea gialla in direzione Verona, sperando di vedere le luci del convoglio, che si avvicinano flemmatiche in lontananza. La calma dei tuoi compagni di viaggio, che fanno le stesse cose che fai tu. Solo che ieri mattina l’atmosfera era diversa. Sull’app una sfilza di banner rossi a segnalare treni «limitati», alcuni soppressi, altri con ritardi distopici: 98 minuti (98!). Ancora l’app. Ormai siamo tutti nativi digitali, è il nostro destino mobile. Avviso delle 7 e 49: «Un treno proveniente da Cremona e diretto a Milano Porta Garibaldi è sviato tra le stazioni di Treviglio e Pioltello. I soccorsi sono sul posto». I soccorsi? Vibra il telefono. WhatsApp. Mia sorella: «Stai bene?». Subito sulle agenzie. E allora capisci. Altro che «sviato». Un treno è deragliato. Feriti, molti feriti (nessuno sa ancora delle vittime). Però tu ci provi lo stesso a prendere un treno. Troppo complicato arrivare in auto in centro a Milano. Costoso, sì. E soprattutto ambientalmente insostenibile. Già la val padana è una camera a gas. Chi prende il treno è orgoglioso di non contribuire al
global warming. E allora lo prendo, il treno. Affollatissimo. Ma la gente stipata sopra non è nervosa. È preoccupata. Si è creata empatia: «Potevo esserci io su quel treno». Chiari, Romano. Altri cappotti che si stipano. Poi Treviglio, la stazione di
mezzo. Di qua casa, di là il lavoro. Solo che non si muove nulla. Ancora l’app (benedetta la smart city!): «Sospesa la circolazione fra Milano e Treviglio». Ma nessuno, questa volta, se la sente di imprecare. «Ci sono dei morti», dice qualcuno. Un disastro, una tragedia sulla linea che credevi sicura. Che i tuoi credono sicura, non come l’autostrada, quella sì che è un flipper di lamiere ai 130 all’ora. Che fare? C’è chi attende. C’è chi chiama casa o l’ufficio. Compulsiamo sui telefoni per avere notizie. Un capotreno allarga le braccia sconfortato. Sta per partire un treno per Verona, la direzione del ritorno, la direzione della sera. Ed è strano prenderlo alla luce del giorno. Pare estate. Una grigia sera d’estate, solo che la campagna è piatta e marrone, senza il mais pronto da mietere. Perché è solo una triste mattina d’inverno. Molto triste.
Vita da pendolare La partenza in ritardo da Chiari e i primi segnali del disastro