Ctb, il Vangelo secondo Sandro Veronesi
Veronesi porta al Santa Chiara-Mina Mezzadri il monologo tratto dal suo volume «Non dirlo»
Una raffinata macchina da conversione, sintonizzata sull’immaginario dei suoi destinatari. Stiamo parlando del Vangelo di Marco su cui Sandro Veronesi, uno degli autori italiani più acclamati (Gli sfiorati, Caos calmo,Baci scagliati altrove, Terre rare...) ha scritto un monologo da lui stesso interpretato e tratto dal suo volume, Non dirlo (Bompiani, 2015): in scena stasera alle 20.30 al teatro Santa Chiara Mina Mezzadri per la rassegna Brescia Contemporanea del Ctb. La produzione è del Metastasio di Prato.
Nel libro lei ammette di non essere credente. Sembra che il suo interesse nei confronti del Vangelo di Marco dipenda dalla curiosità verso un testo che è un modello di scienza della comunicazione.
«Il mio è un interesse narratologico. Io sono scrittore e lettore. La scrittura e il racconto sono la cosa fondamentale dei Vangeli. Quando ci viene chiesto di credere in un Dio, ci viene chiesto di credere in un racconto. Il Vangelo di Marco, molto diverso dagli altri Vangeli, è un racconto d’azione avvincente, mirato a un popolo, i romani, che non avevano nessuna predisposizione spirituale. La storia di un pezzente palestinese morto sulla croce era quanto di più lontano ci potesse essere per la loro mentalità pagana. Quello di Marco fu un compito improbo, ma che ha dato dei risultati: ci sono voluti tre secoli di persecuzioni, ma poi Roma è diventata il cuore della cristianità. Quello che Marco pratica alla perfezione è l’audience control, il controllo della narrazione a seconda dell’utenza».
Il titolo, Non dirlo, è singolare. Perché una esortazione al silenzio?
«In questo caso, quello della intimazione al silenzio per i testimoni dei miracoli, la scienza della comunicazione è calzante. Innanzitutto c’è una strategia che non è di Marco ma di Gesù stesso: mantenere sempre nell’ambiguità la sua identità e il suo operato fino a quando non compare la croce. Perché è la croce che illumina tutto quello che ha detto e fatto. E poi c’è una vera strategia comunicativa: chi compie miracoli e intima di non parlarne crea un mistero che è quello che Gesù vuole: sostituire alla certezza il mistero e i dubbi. Subentra il segreto di personalità: ma chi è quest’uomo?».
Come mai ha portato il suo libro a teatro?
«Perché è stato scritto per la presenza, per il contatto fisico con le persone. Sentivo che il lavoro non era completo senza questo contatto. Allora mi sono arrischiato a fare una cosa che non avevo mai fatto e che forse non farò più».
In Gente di teatro, la plaquette che raccoglie gli ultimi scritti di Renato Borsoni, c’è un affettuoso cameo che la riguarda. Un suo ricordo di Renato?
«Siamo rimasti vicini molti anni fa solo per pochi mesi al Metastasio di Prato (io ero presidente, lui direttore artistico), ma quei pochi mesi sono bastati a legarci per sempre. E anche quando le nostre strade si sono separate, non abbiamo smesso di sentirci. Era una persona speciale, uno degli incontri fondamentali della mia vita».
Ricordi Renato Borsoni era una persona speciale, uno tra gli incontri fondamentali della mia vita. Ci siamo frequentati qualche mese ma siamo legati per sempre