Il Pd ripartirà anche da qui ma Brescia da sola non basterà
Sortirà da Brescia la «ripartenza» del Pd, come ha detto nei giorni scorsi Ilario Bertoletti sul Corriere? E la politica bresciana potrebbe avere ancora una funzione «pedagogica» nazionale, come ha adombrato ieri Ugo Calzoni? Sarà, ma entrambi sembrano dimenticare che dal 4 marzo scorso tutto è cambiato. Il fatto che Brescia negli anni Novanta sia stata il laboratorio municipale dell’Ulivo di Prodi può essere un illustre precedente, ma non tale da fecondare un contesto politico oggi irriconoscibile. L’abituale seppur comprensibile «autoreferenza» bresciana potrebbe diventare presunzione di autosufficienza, e da qui all’anticamera dell’isolamento il passo è breve. L’odierna parabola di Matteo Renzi è la conferma che più una società è libera e democratica più la politica è spiazzante. Potrebbe esserlo anche per Del Bono, nonostante il complessivo bilancio di una buona amministrazione? Vero è che il precedente di Renzi è rappresentativo come pochi altri: una emblematicità da manuale, icasticamente e «plasticamente» eloquente. Renzi venne meritoriamente salutato a suo tempo come il «Tony Blair» italiano: un riformista lib-lab (liberal-laburista o liberal-popolare) che, vent’anni dopo il suo predecessore britannico, ha svecchiato la tradizione postcomunista portandone coraggiosamente a compimento l’evoluzione liberaldemocratica. Anche per questo il partito di Renzi viene considerato una formazione «anomala», bifronte e bivalve, più che un conseguente modello di sinistra. Eppure non sono stati pochi i successi riformisti di Renzi nel corso della sua esperienza governativa. Il mercato del lavoro con il Jobs act, con il conseguente ridimensionamento del sindacato “politico” salutato da tutti come una novità epocale, e la riforma delle banche popolari. Per non dire dei diritti umani e dei temi “eticamente sensibili” come le unioni civili e il testamento biologico. Certo, sull’altro piatto della bilancia va messo l’errore imperdonabile della personalizzazione plebiscitaria del referendum costituzionale e ancor più l’essersi abusivamente e illusoriamente attribuito l’integrale paternità del 40% dei sì. Detto questo, la «narcosi» intellettuale del Pd, come scrive Bertoletti, va intesa certamente come mancata autocritica, ma proprio sui temi cari al solidarismo cattolico quali l’accoglienza dei migranti. La Lega, e pure 5Stelle, hanno vinto sopratutto perché hanno parlato alla pancia (i primi con la flat tax e l’esclusione, i secondi col reddito di cittadinanza). Cosa scontata per ogni partito politico ma meno ovvia per quelli che, oltre alla pancia vogliono parlare anche al cuore (gli ideali) e alla testa (i valori). La prima autocritica va dunque portata proprio sul terreno dei valori di inclusione tipici del solidarismo cattolico di cui il Pd s’è fatto paladino in modo acritico e indiscriminato (ma in linea con l’Europa, si potrebbe aggiungere a sua attenuante). C’è poi tutto lo spettro della complessità governativa di cui tenere conto, ma i temi del protezionismo economico sovranista (la Lega) e dell’assistenzialismo sociale pauperista (5Stelle) hanno fatto premio, emotivamente e percettivamente vale a dire «irrazionalmente» come avviene nelle consultazioni di massa, su tutti gli altri. Renzi ha pagato duramente l’essersi dimostrato, vent’anni dopo Blair, il suo epigono peninsulare come Berlusconi ha pagato pesantemente la sua dichiarata opzione europea. L’errore di Renzi è stato dimenticare che quanto fu possibile a Blair negli anni Novanta non poteva esserlo altrettanto in Italia vent’anni dopo, non solo per l’arretratezza della sinistra nostrana rispetto a quella britannica, ma anche per le differenze profonde della società italiana rispetto a quella inglese. Del Bono dal canto suo deve stare attento al “vento del Nord” (la Lega) e al “vento del Sud” (Cinque Stelle) che soffiano sulle periferie. Non è vero che la «retorica renziana» ha dimenticato le diverse tradizioni del solidarismo: ha perso, all’opposto, proprio perché ne ha fatto una bandiera. Può darsi che la ripartenza del Pd parta anche da Brescia, ma ci vorrà ben altro per la sua rinascita o la sua rifondazione. Anche perché, se è vero che siamo alla vigilia di un «nuovo irrazionalismo» - come fanno pensare le surreali alleanze ipotizzate a Roma di cui parla Calzoni - non basterà Brescia, nonostante tutte le buone opere di Del Bono, per superarlo.