Giagnoni rivive i tormenti dell’ultima diva
Giagnoni e il lato inquieto di Marylin in un monologo: «È il mio mito da sempre»
Santa Marilyn: così la definì Jonas Mekas, leader del cinema underground. E l’idea della santità viene ribadita dall’icona che viene portata religiosamente in processione in una famosa e ironica sequenza dell’opera rock cinematografica di Ken Russell, Tommy (1975). Come è possibile che una pin up girl, che qualcuno paragonò alle ninfette spudorate da calendario profumato per barbieri, quelli che si usavano una volta, sia diventata una delle immagini sacre del nostro tempo? Quale fu il segreto dell’allure divino di Marilyn Monroe? Venere pop nell’era della riproducibilità tecnica, talmente bella che avrebbe potuto fare a meno del cervello, secondo l’inconfessabile desiderio maschile, ma anche donna fragile e inquieta (Anna Freud, figlia di cotanto padre, fu una dei suoi tre psicanalisti), vittima di un destino crudele all’incrocio tra società dello spettacolo e politica. Noi la ricordiamo sempre con l’abito bianco di plissè, allacciatura morbida e gonna ruota, spiffero da sotto (Quando la moglie è in vacanza), ma le ragioni del culto sono complesse.
Si intitola Marilyn. Attrice allo stato puro il monologo di Lucilla Giagnoni, lo spettacolo fuori che debutterà domani sera (ore 20.30) al Sociale, una produzione del Ctb per la regia di Michela Marelli, che ha curato il testo con l’attrice. «Marilyn è i mio mito di quando ero bambina — ci confessa la Giagnoni —. Da adolescente avevo la camera tappezzata delle sue foto. È uno dei miti che non conoscono la corruzione del tempo. La sua storia raccontava qualcosa che andava oltre. Aveva la bellezza splendente, ma anche lo sguardo intenso di chi cerca qualcosa con disperato ardore. Tra tutte le attrici che ho conosciuto nella storia del cinema americano, è quella che più di tutte, anche se meno dotata, ha cercato di diventare brava attrice, di conquistare questo ruolo. E lo diceva, non le interessava il denaro, il successo. Voleva diventare brava, crescere umanamente e professionalmente, e questo mi ha sempre colpito. Il sistema le ha fatto fare sempre la parte dell’oca bionda, ma dietro c’era altro».
Non solo un corpo da usare (nei sogni), ma un’anima tremula, una donna.
«È stata la prima in molte cose, per esempio nella denuncia degli abusi sessuali. Ha dichiarato con coraggioso candore che a Hollywood aveva passato la maggior parte del suo tempo in ginocchio, non ha mai negato di essere arrivata dove era arrivata, pas- sando per la forca caudina del darsi sessualmente. È stata poi la prima a investire su se stessa, nella costruzione della propria immagine. È stata l’inventrice di se stessa. Poi naturalmente nascondeva anche insicurezze impressionanti. Aveva però quella grandezza interiore che è data dalla sofferenza della vita e da una infinita disponibilità a darsi. E lei si dava, fino a morirne».
Qual è la chiave di lettura dello spettacolo?
«Tutto nasce dal fatto che la Monroe è un personaggio che lei ha interpretato e indossato come un vestito. Arthur Miller, suo marito, la chiamava Marilyn, non Norma (suo nome d’anagrafe). Ogni attrice ha un personaggio che la abita, una voce dentro se stessa, una luce. Mi chiamo Lucilla e cerco sempre una luce, sia che parli di Bibbia, Divina Commedia o di Marilyn».
Repliche fino al 29 aprile.