Tre commilitoni e la verità della guerra
Con «La terra non andrà ai contadini» Pizzati intesse un romanzo fra la Lunigiana la Bassa
L’incalcolabile serie di opere narrative, diaristiche, storico-letterarie sulla prima Guerra Mondiale si arricchisce di nuove coinvolgenti pagine con La terra non andrà ai contadini del bresciano Christian Pizzati (Edizioni Acar, pagine 178, euro 12.50). Residente a Brandico, nato a Soresina da una famiglia originaria della Lunigiana, Pizzati aveva già meritato con il suo libro storico «L’ultima ballata» un premio proprio a Pontremoli sette anni fa. Stavolta mette a frutto la profonda conoscenza dei suoi territori di vita e d’elezione, e gli studi che gli consentono di tracciare una solida ambientazione storica, per tratteggiare tre personaggi molto riusciti: il contadino Giovanni Manenti da Ognato di Brandico, il borghese istruito Elia Zambelli da Soresina e lo sfaccendato Pietro Poletti da Dobbiana in Lunigiana.
La Grande Storia, sotto forma di chiamata alle armi, intreccia le loro storie e ne porta a galla la verità. Un’oscura inconfessabile origine nel caso del contadino bresciano, una vocazione all’impegno sociale nel solco di Miglioli nel caso dell’avvocato cremonese, un’attitudine all’adattamento al mondo così com’è da parte dell’ambulante toscano. Accanto a loro una serie di comprimari non dimenticabili: dall’ardito-vampiro siciliano, a Barbesino III mediocre calciatore piemontese con pretese da asso, allo scrittore spiantato genovese «De Amicis» che si accontenterebbe di un lavoro da tipografo. Prima di un assalto all’arma bianca molti di loro caleranno la maschera, in una trincea sull’Isonzo, in una delle pagine più palpitanti del libro.
L’esperienza al fronte dei tre commilitoni diventati amici nella Brigata Brescia è un vero e proprio viaggio all’inferno: «Erano bastati i primi attacchi furiosi verso i fortini nemici per prendere coscienza di dove erano finiti e, pur cercando di appellarsi a ogni pur minima traccia di vita, non avevano più smesso di precipitare». Pizzati non si sofferma sulla macelleria di cui i campi di battaglia sull’Isonzo furono teatro e occasione ma lavora sulla tensione che attanaglia i soldati prima e durante l’assalto. Cesella il loro aggrapparsi ai ricordi: «In quell’uniforme letto di morte, erano le memorie più piccole e insignificanti quelle cui appigliarsi. Quegli oggetti banali, quei refusi che sfuggivano alla guerra che azzerava tutto, tenevano ancorati i soldati alla vita». Non tutti torneranno dal fronte. Chi lo farà, si troverà a svolgere un ruolo non marginale nel biennio rosso, quello delle lotte nelle campagne, del reducismo deluso, del preludio alla reazione fascista. Chi aveva rischiato la vita e speso la propria gioventù per conquistare nuovi confini alla Patria ne ricaverà la percezione acutissima, intima e dolorosa, di un’altra verità: «Che il confine è qualcosa di personale. È una zona d’ombra che rimane dentro ovunque si va, è un angolo oscuro che si cerca di rischiarare con parole, amori, passioni e illusioni. È un punto freddo da riscaldare. La zona d’ombra ti segue, non si può sfuggirle. Non si guarisce da quella febbre di vita che non ha radici ma è propria dell’uomo. Il confine è nel cuore dell’uomo».