LA «RICCHEZZA» DEL DUOMO
Volti di Girolamo Romanino riaffiorano dal passato. L’annuncio del riemergere sulle pareti del Duomo Vecchio, in prossimità dell’organo Antegnati Serassi, di importanti affreschi sicuramente opera del grande pittore bresciano del Cinquecento ci portano ad alcune riflessioni. Giovanni Testori definì Romanino «il più grande, più torvo e triviale dei pittori in dialetto dell’arte d’ogni regione e d’ogni tempo»: parole vibranti di commozione e d’amore per un artista definito anticlassico nel quadro del Rinascimento italiano. Romanino, nato a Brescia e pregno degli umori lombardi di un Foppa, incontrò a Venezia la luce e il colore di Tiziano e ne venne stregato. Lo dimostra, in città, la stupenda pala dell’altare maggiore della chiesa di san Francesco, così preziosamente tizianesca e veneta. Poi, a un certo punto della sua carriera, prese la decisione di staccarsi da quel modello ingombrante e di percorrere una strada tutta sua, più autenticamente lombarda, se si vuole, per quella peculiare attenzione alla realtà che è cifra distintiva della nostra regione in pittura. Fu certamente influenzato dalla conoscenza dell’arte tedesca e di Durer in particolare, ma gli esiti di tale percorso sono assolutamente originali e fanno di Romanino una delle voci più alte del Cinquecento italiano. Lo dimostrano in particolare gli affreschi degli anni Trenta in Valcamonica, a Breno, Bienno e, soprattutto, nella chiesa di santa Maria della Neve a Pisogne, «la Cappella Sistina dei poveri». Proprio a queste figure dinamiche e per certi versi scomposte rimandano quelle riaffiorate in Duomo Vecchio. L’antica cattedrale si conferma così uno dei luoghi generatori di senso per l’identità e la storia della nostra città, scrigno di importanti vestigia: il tesoro delle Sante Croci, la tomba di Berardo Maggi, la forma stessa della chiesa, che rimanda al Santo sepolcro, le tele di Moretto e quelle tarde dello stesso Romanino. Della capacità di guardare la realtà con occhio partecipe e commosso si fa interprete un artista che ha saputo raccontare l’inquietudine di un’epoca segnata da profonde lacerazioni, ma che, come tutti i grandi, non resta confinato nell’alveo del suo tempo, ma si pianta fortemente nel cuore della contemporaneità per dirci qualcosa che supera le contingenze. La storica attitudine del bresciano a farsi prossimo, a cogliere nella verità del volto altrui, soprattutto del povero, un riflesso del Divino.