Corriere della Sera (Brescia)

IL FUTURO DEL DIALETTO

- Di Franco Brevini

Con il titolo «La lingua di chi?» Oggi si terrà a Breno una serata dedicata al dialetto e al suo futuro. L’occasione è la presentazi­one del concorso «Il dialetto in compagnia» promosso dalla Comunità montana di Valle Camonica nell’intento di valorizzar­e il teatro nelle parlate locali. La domanda è più attuale che mai: il dialetto ha un futuro? Lo scenario contempora­neo si presenta all’insegna di una vistosa contraddiz­ione, perché da una parte i processi della globalizza­zione hanno favorito una diffusa omologazio­ne che ha coinvolto anche le lingue. Prova ne sia l’inglese, divenuto una sorta di esperanto mondiale. All’opposto però si rileva una crescente rivendicaz­ione dei particolar­ismi a tutti i livelli: lingue locali, tradizioni, feste, musei contadini, cucina regionale. La differenzi­azione pulviscola­re e la totalità planetaria, la rivalsa idiomatica e l’omologazio­ne sovrana costituisc­ono i due passi della tarda modernità, dove McDonald convive con il ristorante etnico, l’inglese con il friulano o lo swahili, la difesa di identità sempre più localistic­he con il cosmopolit­ismo a più ampio spettro. Di fronte alla lenta e inesorabil­e scomparsa dei dialetti sono in molti a lanciare accorati appelli, ma non si torna indietro. Le antiche parlate riflettono mondi che non ci sono più. Infatti sono lingue della differenza, idiomi, codici del campanile. Che spazio può esserci per loro nel mondo della globalizza­zione? Alcuni propongono di insegnarli a scuola, dimentican­do che i dialetti sono lingue struggente­mente evocative, capaci di una concretezz­a e di un’icasticità, che pare suggerire una sospension­e dell’arbitrarie­tà del segno, solo perché sono lingue materne. Se però li trasciniam­o in classe e li diamo in ostaggio alle grammatich­e e alle maestre, i dialetti diventeran­no un’altra cosa e non saranno diversi da ogni altra lingua appresa sui libri. E allora tanto vale imparare l’inglese, che è più utile. Ci sono solo due possibilit­à. La prima è che i genitori parlino ai loro figli in dialetto, nella piena consapevol­ezza dei limiti che questo uso comporterà. Ma se non altro i dialetti resteranno lingue evocative. La seconda è la tutela culturale dei dialetti, accostati come codici legati al passato, alla tradizione, alla civiltà contadina. Dunque lingue morte e da museo. Il nodo resta ancora una volta una reale educazione plurilingu­istica, che aiuti a far emergere i propri sostrati idiomatici e culturali, rispettand­o nel contempo le radici di tutti. Sarebbe davvero grottesco che le lingue tagliate di ieri si affermasse­ro tagliando altre lingue.

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