IL FUTURO DEL DIALETTO
Con il titolo «La lingua di chi?» Oggi si terrà a Breno una serata dedicata al dialetto e al suo futuro. L’occasione è la presentazione del concorso «Il dialetto in compagnia» promosso dalla Comunità montana di Valle Camonica nell’intento di valorizzare il teatro nelle parlate locali. La domanda è più attuale che mai: il dialetto ha un futuro? Lo scenario contemporaneo si presenta all’insegna di una vistosa contraddizione, perché da una parte i processi della globalizzazione hanno favorito una diffusa omologazione che ha coinvolto anche le lingue. Prova ne sia l’inglese, divenuto una sorta di esperanto mondiale. All’opposto però si rileva una crescente rivendicazione dei particolarismi a tutti i livelli: lingue locali, tradizioni, feste, musei contadini, cucina regionale. La differenziazione pulviscolare e la totalità planetaria, la rivalsa idiomatica e l’omologazione sovrana costituiscono i due passi della tarda modernità, dove McDonald convive con il ristorante etnico, l’inglese con il friulano o lo swahili, la difesa di identità sempre più localistiche con il cosmopolitismo a più ampio spettro. Di fronte alla lenta e inesorabile scomparsa dei dialetti sono in molti a lanciare accorati appelli, ma non si torna indietro. Le antiche parlate riflettono mondi che non ci sono più. Infatti sono lingue della differenza, idiomi, codici del campanile. Che spazio può esserci per loro nel mondo della globalizzazione? Alcuni propongono di insegnarli a scuola, dimenticando che i dialetti sono lingue struggentemente evocative, capaci di una concretezza e di un’icasticità, che pare suggerire una sospensione dell’arbitrarietà del segno, solo perché sono lingue materne. Se però li trasciniamo in classe e li diamo in ostaggio alle grammatiche e alle maestre, i dialetti diventeranno un’altra cosa e non saranno diversi da ogni altra lingua appresa sui libri. E allora tanto vale imparare l’inglese, che è più utile. Ci sono solo due possibilità. La prima è che i genitori parlino ai loro figli in dialetto, nella piena consapevolezza dei limiti che questo uso comporterà. Ma se non altro i dialetti resteranno lingue evocative. La seconda è la tutela culturale dei dialetti, accostati come codici legati al passato, alla tradizione, alla civiltà contadina. Dunque lingue morte e da museo. Il nodo resta ancora una volta una reale educazione plurilinguistica, che aiuti a far emergere i propri sostrati idiomatici e culturali, rispettando nel contempo le radici di tutti. Sarebbe davvero grottesco che le lingue tagliate di ieri si affermassero tagliando altre lingue.